SORDELLO DA GOITO

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Sordello da Goito tratto da un manoscritto del XIII secolo

Sordello da Goito per gli storici e gli amanti della letteratura rimane un personaggio attorniato da un fitto alone di mistero, dettato anche dal fatto che del Menestrello del Duecento sono rimaste pochissime attestazioni a fare da riferimento biografico.

Nonostante ciò, vi fu un poeta che rese omaggio al goitese trasformandolo in un condottiero anziano e dalla profonda saggezza, un uomo di legge e magnanimo alla stessa stregua di un Salomone biblico.

L’autore di cui stiamo parlando è anch’esso avvolto dall’alone leggendario sia delle sue opere grottesche e maccheroniche sia delle sue gesta in vita: Teofilo Folengo.

Il suo nom de plume gli rende certo maggiore fama, ovvero Merlin Cocaj, mentre l’opera dove più profusamente si parla del poeta Sordello è il Baldus.

Definita dallo stesso Folengo una “Maccheronea”, ovvero un poema epico e al contempo burlesco, essa narra le vicende del forte e saggio Baldo, figlio di quel Guido di Francia che accompagnò le gesta di Orlando e Rinaldo, e di Baldovina, ricca signora francese che scappò dalla terra degli eroi della Chanson assieme al marito per giungere a Cipada.

Ancora oggi esiste, appena dopo il ponte di San Giorgio, che unisce la città di Mantova ai territori limitrofi, una via che riporta il nome di Cipata (anticamente detta Cipada).

In quel luogo, infatti, il Folengo possedeva dei territori di famiglia e lui stesso li descrive come località buone solo a pascere covi di briganti, lesti di pensiero e gente dalle mani abili e veloci.

Per incontrare Sordello, dobbiamo aspettare che Guido e Baldovina passino la Porta Leona, anticamente sita in asse con Corso Umberto I e che proprio al momento della scrittura veniva ultimata sotto l’occhio vecchio ma vigile di Sordello da Goito.

Così scrive il Folengo:

Guido era appena entrato con la povera moglie e vide Sordello, nell’imponenza della sua statura, stare davanti alle porte del proprio palazzo che si elevava fino alle stelle, proprio là dove ora sta la famiglia del vecchio Grignani. Subito riconobbe il socio, il compagno di un tempo nelle battaglie contro i Turchi e i Mori; tuttavia si allontana in fretta da lui, e con il volto basso se ne va frettoloso verso porta San Giorgio ed esce dalla città.

[Baldus II 66-68]

 Come è ovvio che sia, all’interno della narrazione folenghiana non vi sono verità storiche soltanto, ma la finzione si unisce alla verità e proprio da questo mescolotto di bugie e realtà è possibile leggere informazioni che a noi non sono pervenute ma che sicuramente l’autore possedeva al momento della scrittura.

Successivamente il buon Sordello sparisce dalle gesta di Baldo fino a che questo non lo incontrerà di ritorno dai territori di Mottella che il Folengo dice essere di proprietà del goitese assieme alle terre di Cavriana.

L’occasione, qui, è meno descrittiva e più dialogica rispetto alla precedente. Accade infatti che Sordello si trova a dover cavare d’impiccio il giovane Baldo da una rissa avvenuta poco prima e da un omicidio commesso all’altezza di quella che oggi è conosciuta come località Sparafucile.

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Ecco cosa riporta Merlin Cocaj nella sua narrazione.

Ed ecco che arriva per caso Sordello da Goito, che tornava in città dai campi della Mottella. Lui cavalcava, con gli staffieri che lo precedevano svelti, ormai vecchio, ma non ancora debole per la vecchiaia: non suona il corno nel naso, non ha perso un sol dente, non sputa scaracchi davanti, non scorregge di dietro. Vede lì un bambino, legato mani e piedi, esser portato davanti all’autorità con tanto strepito con quanto gli sciocchi Troiani nel tempo antico strascinarono Sinone dal re Priamo. Si fermò là; tira la briglia, arresta la chine a, ordina agli sbirri di fermarsi; vede con stupore che tre di loro son feriti; chiede il motivo della novità, di come un fanciullo che sa appena parlare, camminare, mangiare, sia legato così come un omicida. A lui che si stupisce il capitano racconta tutto. Ma il fanciullo, che ha sempre più l’animo ardito e la voce spedita, prontamente dice a Sordello: – Gentiluomo, vi prego, le vostre orecchie si degnino ascoltare in poche parole le ragioni di un orfanello. Le nostre liti non possono esser ascoltate da un giudice migliore: è nota nel mondo la fama di Sordello, che per la passione della giustizia volge le spalle a tesori. In primo luogo, dite voi, cavaliere: se, contro il diritto, qualcuno vi vuoI portar via la borsa o il mantello, potrete perdere la borsa o il mantello così alla leggera, per  Nostro Signore? Ma dirò di più. C’è uno che vi assale per strada, vi minaccia con un pugnale e vuoi slegare dal suo legame la vostra cara  anima: voi potrete tollerare un fatto simile? e tenere le mani giunte sul petto, come uso fare io fanciullo quando recito diligentemente la lezione? e voi potrete sopportare che vi si malmeni a piacimento? Ora un bravaccio, al quale, credetemi, non ho dato alcuna noia, ma proprio nessuna noia, se non l’avesse data prima lui a me, non si vergognò di inseguirmi per tre miglia per togliermi, la spada in pugno, la testa da sulle spalle. Perché la natura dà all’uomo i piedi e il cuore e le mani? E così io con i piedi fuggivo, infatti il piede è dato per questo scopo; ma, quando ho visto che non mi serviva niente, mi feci cuore saldo, perché con un cuore saldo superiamo ogni pericolo. E quindi la mano, ministra del cuore, che può fare in quel momento? o in una necessità così impellente perderà tempo a grattare la rogna con le unghie o a cercare i pidocchi grigi sotto il sole? Date voi una sentenza onesta, com’è vostro costume, voi che non dimenticate le norme della Tavola rotonda. Se il torto è mio, mi spetta la pena del torto, se ho ragione, il paladino
Soccorra la causa della giustizia. – Stupì  il cavaliere per il discorso del tenero fanciullo, e intuisce che diventerà un valentuomo. Prontamente disse agli sbirri: – N on si tro- va nessuno sotto la volta del cielo che vi superi per inettitudine. Che vergogna è questa? presto, a chi parlo? togliete questi nodi al fanciullo, e non fatevi dire una cosa due volte, se non volete imparare che barba sia quella di Sordello! – Il bargello a lui: – Il nostro compito è ubbidire al senato e non si fa né più né meno di quel che impongono gli ordini datici.
[Baldus III 440-497]

Da questo momento in poi i due intrecceranno il loro destino diverse volte prima che Baldo fugga in Turchia assieme al fidato Cingar e Leonardus e Sordello trovi la morte a Mantova.

In particolar modo, l’eroe di Cipada diventerà aiutante e allievo del goitese come si racconta ai versi 574-90 del libro III.

Sordello poi è preso da tanto affetto che desiderando portarlo con sé, mentre volta la muletta, comanda ai servi di metterlo in groppa dietro di lui. Ma Baldo giudicando sia codardo un atto simile, che cioè monti in sella a quel modo, sollevato dall’aiuto altrui, subito, spiccando da terra un salto perfetto, si pianta in groppa, leggero, a gambe aperte. Per quel salto il cavaliere s’infiamma ancor di più
d’amore per il fanciullo, lo porta via, lo conduce a casa, lo veste elegantemente, ne fa un paggetto, che non ve n’è uno più veloce sia che spazzoli gli abiti del padrone al mattino presto, sia che porga da bere, sia che serva a tavola, sia che corra qua e là per la città a sbrigare mille faccende.

Mentre è di poco successivo il passo che racconta di come il saggio menestrello invitasse Baldo a predere moglie indirizzandolo verso la bella e furba Berta, che diventerà il contraltare positivo e al contempo picaresco della brutta e stupida Lena, moglie del fratellastro di Baldo, Zambello.

Frattanto Baldo, preso dall’amore per una villanella di nome Berta, la portò via con la forza al padre. Lei superava tutte le donne di città per quanto graziose, non soltanto per la bellezza del viso piacente, ma per il portamento, l’incedere, il riso e l’amabilità del parlare. Per questo e consigliato anche dal parere del grande Sordello, cui stavano cuore tutte le cose di Baldo, la sposò, come è doveroso, con un legale matrimonio, E lei al primo assalto rimase incinta e, felicemente, fece in una sola gravidanza due marmocchi, che fece chiamare Grillo e Favetto: tanto belli nell’aspetto, tanto cortesi, tanto gentili che ognuno irà che quelli non possono essere figli d’altri che di Baldo. Frattanto era cresciuto, un uomo fatto, anche Zambello; nato da Berto e da una madre Tonella, Zambello; tutti lo ritenevano dello stesso sangue di Baldo e suo fratello. Lui pure aveva sposato una moglie, di nome Lena, e fu barba Tognazzo il tessitore di questo affare. [Baldus IV 147-164]

Ma sarà la morte di Sordello a segnare la vera e propria disgrazia per l’eroe di Cipada in quanto con la sua assenza, il personaggio di Tognazzo, di comune accordo con il perfido Zambello, riesce ad incarcerare Baldo e, in un secondo momento, lo spinge verso la forca. Ma il nostro ha ben poco da temere, visto che saranno proprio Cingar e Leonardus a trarlo fuori dagli impicci e a permettergli di scappare dalla città dei Gonzaga. Significativa rimane la scena della morte di Sordello che viene così descritta dal Folengo.

 Ma qui c’è Sordello, di cui nessuno è più ardito nel prender le parti della giustizia e con la forza della lingua e con quella della spada. Come vede gli sguardi di tutti fissarsi su di lui, indugia un istante, quindi appare in tutta la sua grandezza, levatosi da sedere, e prende a parlare solenne: lnclito re e consiglieri del re, e voi maggiorenti che provvedete all’onore della città, benché questo luogo esiga labbra libere, e voglia lingue sciolte senza timore di vendetta, tuttavia, non tanto per questo diritto, ma per una legge di
ragione insegnata dalla natura, affinché non mi rimorda la colpa di aver taciuto, comincerò. L’animo di Baldo, il valore di Baldo, la saggezza di Baldo ho cominciato a conoscerli dagli anni della fanciullezza.

È propensione dell ‘uomo, quando tenero nella prima età si agita senza controllo, mettersi sul cammino dei vizi; se è senza un domatore e una cavezza, si precipiterà di qua e di là, dove lo portano le inclinazioni sfrenate. Ma un fanciullo nato nobile, benché, non conoscendo i freni della briglia, segua le varie lusinghe, se per caso una volta ascolterà un uomo maturo che lo ammonisca, benevolmente da principio affinché il ramo ancor troppo tenerello forzato da una mano violenta non si spezzi a metà dell’opera, deposta a poco a poco la selvatichezza, accetta di esser educato e si mostra un uomo, che l’umana moderazione da sola ritrae dal vizio e conferma nel vincolo della legge. Vediamo sottomettersi al carro i tori indomiti, la cui riottosità è rimossa dall’abilità del
contadino; allo stesso modo infurierebbe un cavallo senza il domatore; e, senza il pollo, non viene sul pugno del falconiere lo sparviero. Così il giovane Baldo, nato da nobile stirpe. Ma vedo parecchi di voi voltare altrove la faccia e mostrare a me che sto parlando il naso arricciato.
Conosco assai bene i pensieri che sono ora nel vostro cuore, perciò non voglio gettare le mie parole al vento. Quanto mi addolora che mi pendano ormai, vecchio bue, lunghe giogaie! quanto di avere una cavalla bolsa! Non l’animo manca, vi dico, ma la forza se n’è volata via. – Così disse e, alzatosi, tornò furente a casa e in tre giorni morì per il troppo dolore. Oppure (come sorse il sospetto), per una trama di Gaioffo, bevve un veleno mortale portogli dal medico.
[Baldus IV 513-552]

Le gesta eroiche proseguono, ma la memoria del saggio Sordello rimane cara al buon Folengo che decide di omaggiarlo con la citazione della lettera del Senato di Mantova dove diviene motivo di incitazione per Baldo alla belligeranza, mentre in un passaggio successivo vengono annoverate le famiglie mantovane che militavano sotto di lui come riportano i versi dal 453 al 458 nel XI libro dove si dice che:

 Non stanno contro Baldo dieci famiglie soltanto, quelle solite a combattere al comando di Sordello: Agnelli, Abati, Capriani, la gente dei Folengo, Gorni e Alebrandi, Tosabezzi e poi Copini e Conegrani, Cappi; queste nobili famiglie hanno sostenuto la città di Mantova con la loro prodezza fin dai suoi inizi.

Si concludono i riferimenti di Merlin Cocaj a Sordello quando l’autore lo fa assurgere ufficialmente tra gli eroi della grande Maccheronea ai versi 484-483 del Libro XVIII dicendo di lui “Là c’è anche il grandissimo Sordello da Goito le cui stupende prodezze sono note ovunque.” dopo aver incensato a dovere imperatori romani, condottieri e membri della famiglia Gonzaga.

Rimane chiaro, che come precedentemente scritto, la versione che Teofilo dà del Sordello è molto parziale laddove non direttamente inventata, ma rimane comunque un validissimo documento che rende uno spaccato su quello che è il sentire dei mantovani di metà Cinquecento nei confronti del menestrello goitese.

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(© Pagina a cura di A.Mendes Biondo)