Cap.1° Corte Palazzetto

I RICORDI

La vita, nell’ultima sua parte, è regolata dai ricordi. Ve ne sono di due tipi, quelli di prima mano e quelli che riaffiorano dalla nebbia del passato con l’aiuto di coloro che vivono accanto. Quelli della prima infanzia sono principalmente del secondo tipo.

V’è chi i propri ricordi li coltiva, li accarezza, li nutre e rinnova; v’è chi li accumula a casaccio e finisce per non distinguere più nel gran mucchio.

C’è poi una infinita gamma di cultori intermedi, naturalmente. Ma Gepe ha la ventura, così lui crede, di far parte del primo gruppo, pur non essendo incline a fantasticare su di essi, magari fino a snaturarli. Crede perciò di trovarsi nelle condizioni ideali per trasmetterli, questi suoi ricordi, ai lettori pazienti per vocazione; ma non può nascondere che il suo pensiero corre, a questo punto, ai suoi  due figli, Laura ed Enrico, e a tre nipotine, Nadia, Valentina e Bianca.

GEPE A RIVALTA

Gepe – protagonista narratore – è un bambino povero e molto amato di tanti anni fa, senza fratelli nè sorelle; abita in un vecchio paese posto accanto al Mincio, giusto nel punto in cui il fiume, che proviene da nord, compie un’ampia curva verso ovest al fine di lambire il piede del dosso sul quale sorgono la chiesa parrocchiale e la canonica; oltre, naturalmente, le poche case basse – a livello del fiume – di Rivalta: di fronte alle quali funziona il piccolo porto–attracco. Subito dopo, con un’ampia curva, riprende la direzione nord-sud: per un paio di chilometri, perché in vista della chiesa delle Grazie il Mincio punta con decisione ad est, verso Mantova, la capitale. La circuisce su tre lati, quindi di dirige al Po. Il perché di questo lungo discorso è chiaro: il Mincio è Rivalta e Rivalta è il Mincio.

ROSINA

La madre di Gepe, Rosa detta Rosina, poco più che trentenne, arellaia con una esperienza di lavoro lunga quanto la sua vita, ogni tanto porta il bambinello per un giorno sotto la custodia dei nonni materni, in una casa di campagna posta a cento metri dalla sua, la Corte del Conte. A quel bambino il luogo in cui lo portano ogni volta deve apparire un paradiso in terra: il portico, la stalla, i cavalli, ospiti e stanziali, gli uomini che caricano e scaricano sacchi di farina e granaglie, il vasto prato che s’apre davanti e sui due lati della casa….. Né gli deve mancare l’appetito, perché ogni tanto si trova accanto la nonna o una zia che gli allungano un gran pezzo di panbiscotto –“Toh, che ti gratti i denti!”– o un mestolo d’acqua fresca. E sole e corse, erba cielo vento, fin che il piccolo s’addormenta esausto su un mucchio di fieno per risvegliarsi su un letto qualsiasi, dove qualcuno nel frattempo lo ha depositato.

002 La prima foto di Gepe.jpg

LA PRIMA FOTO

Un giorno, più o meno nello stesso periodo, Rosina giunge concitata accanto al figlioletto che sta giocando; lo prende per mano e lo obbliga a seguirla in casa di corsa, in allegria. Lo ripulisce alla meglio, lo veste “delle feste” in un attimo e lo riporta fuori. Solo allora lui si rende conto che c’è qualcuno in attesa: un uomo mai visto prima, venuto dalla città, in piedi sulla breve spianata di levante, a capo chino dietro una cassetta posta su un treppiede. Rosina piazza Gepe contro il muro sotto la finestra di casa e gli pone accanto la seggiolina nuova, sulla cui spalliera lui deve appoggiare la mano; l’uomo della cassetta interviene, si avvicina e gli pone nella mano libera un suo mazzetto di fiori di celluloide. Gli impongono di stare fermo, di guardare avanti… L’uomo torna alla cassetta e si copre il capo con una tovaglietta nera. Il bambino è immobile, perplesso, a guardare senza capire che cosa si stia facendo per fabbricare la cosiddetta fotografia…

Solo dopo qualche settimana l’uomo tornerà al Palazzetto e Gepe apprenderà in concreto che cosa sia la fotografia, forse la prima che vede. C’è ancora in giro quella prima foto della sua vita, l’unica dei suoi primi dieci anni.

La seconda l’avrà a Sesto S. Giovanni, poco prima di entrare nella prima classe del Regio Ginnasio di Monza: era necessaria per la scuola.

CORTE PALAZZETTO

Questi che si stanno narrando sono eventi di un altro mondo accaduti intorno all’anno 1920.

Gepe ha cominciato a scriverne dopo il ’90, quando già aveva contato settanta primavere essendo nato nell’ottobre 1920: è finita la prima guerra mondiale giusto due anni prima; suo padre, tornato da poco tempo, ne ha trenta. Abitano a Corte Palazzetto di Rivalta sul Mincio: millecinquecento abitanti dei circa quattromila del comune di Rodigo, a una decina di chilometri da Mantova, la capitale. Il Palazzetto è una costruzione formata da pianterreno e primo piano, parte migliore di un gruppo compatto di piccoli fabbricati rustici, abitato da alcune famiglie di operai e braccianti agricoli.

L’entrata posta a mezzogiorno dà su un ampio andito, per metà occupato da una scala di marmo grezzo, che conduce al primo piano. Una porta a destra e una a sinistra, presso l’entrata, danno nei due grandi stanzoni del pianterreno con finestre su due lati, pavimento in battuto di cemento lisciato e rullato, segnato da crepe vistose.

La scala, in comune per due famiglie, porta ai due corrispondenti stanzoni del primo piano, con pavimento di assi; qui i locali sono altissimi, fino al tetto, che mostra capriate, travi e assicelle poste a sostegno delle tegole. Di quel tetto da fienile Gepe conserva un significativo ricordo: mamma Rosina, entrando la famiglia di sera nell’unica stanza per dormire, con una spolverina posta in cima ad una pertica dà la caccia ai pipistrelli, entrati dalla finestra spalancata nel loro casuale vagare notturno.

Le due stanze di casa, sopra e sotto, si aprono verso sud su un piccolo campo incolto pieno di mazzi di canne; verso est sulla valle del Mincio, bassa e immensa, nebbiosa anche d’estate, col suo mare di canne color sabbia d’inverno, grigio verde d’estate. Come vi si abiti lo dice spesso Rosina: per metà anno in un forno, per l’altra metà in una ghiacciaia.

Rosina lascia il figlio a letto pressoché tutto il giorno fino ai due anni, nella stanza del primo piano, incurante degli strilli di protesta del piccolo. Lei pretende di sapere come allevare il figlio: lasciarlo strillare fin che ha voce, perché “il pianto a quell’età fa bene ai polmoni, li dilata e li rinforza”. Va a prendersi cura di Gepe solo all’ora da lei stabilita per il latte; e sempre di corsa, per non sottrarre tempo prezioso al lavoro delle arelle, che svolge sotto casa.

A nord, appoggiata ai fabbricati della corte, c’è una piccola stalla bassa e buia, una specie di rudere; in essa è ospitato un somaro sbilenco, che non appartiene a gente del Palazzetto. I ragazzi vanno spesso a fargli visita, attirati da un paio di occhiali verdi di celluloide che ogni tanto qualcuno gli pone sul muso. E un giorno il padrone,Ciacio, spiega che per via di quegli occhiali il ciuco mangia la paglia che gli mettono nella greppia, scambiandola per erba fresca. I visitatori si divertono a levargli quei ridicoli occhiali, per fare un dispetto al padrone e rendere giustizia all’asino, che consolano portandogli una bracciata di erba strappata nel prato vicino.

L’isolato del Palazzetto è circondato da un prato disordinato e incolto, costellato di buche scavate per gioco dai ragazzi, o da adulti che hanno bisogno di piccole quantità di sabbia: perché tutta la campagna di Rivalta presenta in superficie un sottile strato di terra e subito sotto uno strato di sabbia spesso alcuni metri; in fondo al quale sgorga, tra ghiaia fine, l’acqua sorgiva.

Un piccolo spazio davanti a casa è destinato al deposito delle immondizie: se ne producono pochissime; la plastica non esiste, nessuno getta pezzi di carta, di legno, di ferro o oggetti di vetro, tutte cose preziose che qualcuno raccoglie: ogni tanto arriva un uomo con bicicletta munita di cassetta e portapacchi e raccoglie gli scarti dando in cambio qualche moneta di rame. Un paio di volte all’anno un contadino arriva con un carro e sgombra il tutto per farne letame.

A levante, al piede della breve scarpata che dal Palazzetto scende a livello del fiume, sorgono le case di corte Pilota, alla portata di ogni minima piena del Mincio; due casoni dove vivono pescatori e vallivi.

L’ampio cortile di corte Pilotta finisce a mattina sul bordo del fossato che si stacca dal Mincio cinquanta metri a monte: il Canaletto, un corso d’acqua che scende tra i prati e la Valle, largo pochi metri, e si ricongiunge al Mincio tre chilometri a valle sotto lo sperone della chiesa delle Grazie. Esso è navigabile solo quando l’acqua del Mincio è abbondante; in periodo di magra diviene un inutile acquitrino. Allora alle barche ancorate alla Pilotta non resta che raggiungere il Mincio, sempre ricco di acqua fresca e profonda, alimentata da quel serbatoio ampio e inesauribile che si chiama lago di Garda.

La scarpata che separa il Palazzetto dalla Pilotta fa parte di una conformazione naturale che segue ininterrotta la riva destra del Mincio per un ventina di chilometri, da Goito a Borgo Belfiore di Mantova; essa costituisce la linea divisoria tra la campagna e l’acquitrino. La riva sinistra è ovunque bassa e paludosa, posta a livello dell’acqua, che la sommerge alla minima piena. Essa è percorsa da un intrico di canali e canaletti ed alimenta una ricca varietà di piante acquatiche. Ma tutto quanto sta sulla riva sinistra, pur facendo parte integrante di Rivalta per via del lavoro che gli uomini del paese vi compiono, è amministrativamente territorio del comune di Porto Mantovano, il cui centro si trova peraltro assai lontano dal fiume.

Rivalta fu in tempi lontani Ripalta (dal latino ripa alta) a indicare una riva che scoscende lungo un corso d’acqua: la riva alta è ancora nettamente visibile intorno alla chiesa parrocchiale, posta su un dosso sul quale, nel Medioevo dovette sorgere un torrione fortificato a picco sul fiume. Quel punto della riva sta a circa ventotto metri sul mare, il fiume una decina di metri più in basso.

I servizi igienici  del Palazzetto sono semplici e gratuiti: un metro quadrato di spazio chiuso da un graticciato di canne nell’angolo di un orto. Chi ama la libertà assoluta anche nei momenti intimi può usare la scarpata che dal Palazzetto si spinge a mezzogiorno, verso i prati di corte Arrivabene, fitta di sambuchi e robinie.

Per i più piccoli non v’è problema: supplisce il mucchio di spazzature posto a sud, o quello del letame a nord. Qui i piccoli sostano quando vogliono e senza complessi, in mezzo alle galline, dandosi la voce per combinare i loro giochi. Personalmente Gepe ha chiarissimo il ricordo della prima uscita di casa dopo una settimana di febbriciattola, in un bel giorno soleggiato di primavera: alla seduta personale assiste la mamma dalla porta di casa. Quell’episodio richiama alla mente del bambino che fu una felicità solare e primitiva: aveva lasciato il letto dove era stato costretto per qualche giorno privo di giochi e di amici; era tornato a vivere… Nei giorni di letto c’era stata soltanto la compagnia breve e saltuaria di sua madre, recante la tazzina di acqua calda bollita e zuccherata, accompagnata dalla massima di sempre: “Acqua calda e servizial la guarisce da ogni mal!”. Di medico e medicine neanche l’ombra: fin dal primo giorno di letto aveva bevuto la giusta pozione di olio di ricino, in seguito acqua bollita calda e dolce, a volontà. Non doveva mangiare, il vaso da notte era sotto il letto a sua disposizione, del conforto materno aveva imparato a fare a meno… Di che mai avrebbe potuto aver bisogno ancora?

Qualche lettore giovane potrebbe chiedersi a questo punto: e il bagno, la doccia? Non ci si lavava mai in quel tempo? Certamente, tutti si lavano, anche se per otto mesi all’anno lo spreco di acqua e sapone è limitato: il mastello del bucato tre-quattro volte al mese, posto davanti alla fiamma alta del focolare alimentata a fascine può bastare. Ma per i rimanenti  quattro mesi, da giugno a settembre, a Rivalta ci si lava tutti e tutti i giorni; i ragazzi restano a mollo per ore: l’acqua del Mincio, limpida e pura, la si poteva bere, è a disposizione di tutti. Nel circondario è un invidiato luogo di piacere estivo; nei paesi limitrofi, nonostante fossi e fossatelli con acqua corrente, si invidiano i ragazzi di Rivalta, che dispongono sulla porta di casa di un fiume ampio e bellissimo.

Da quando è stato ben saldo sulle gambe e fino a quando vi abita, il Palazzetto rappresenta per Gepe e gli amici un campo da gioco senza confini, dalle risorse illimitate. Col bel tempo, nonostante proibizioni e controlli, si spazia senza eccessive difficoltà: sul prato si scava a piacere e senza fatica nella sabbia, si corre e si grida sul ciglione in discesa, si cercano avventure tra i cespugli della scarpata (si impara fin dal primo giorno a badare dove si posano i piedi); se si vuole entrare in un orto recintato, in due minuti si pratica un buco fra la siepe di canne. Si scende alla Pilotta dopo aver controllato dove sono le madri ed essersi fatti da loro notare, ci si ferma a giocare sulla riva del Canaletto, tra le barche accostate: insetti, lucertole, rane, pesciolini e gamberetti sono alla portata di tutti. Ogni tanto è possibile usare una barca per traghettare sulla sponda opposta (pochi metri): qui vi sono i fiori e le piante diverse della valle; e sui salici abbondano i nidi. È questo l’inizio del paradiso in cui Gepe visse fino a quando non lo portarono nella casa nuova di via Scuole.

Si è tutti amici al Palazzetto, come sanno esserlo i poveri, senza vere ambizioni e invidie. Il Ciacio, Cencio del Bodriàco e il Schüster (calzolaio in tedesco, perché era stato in Austria) si ritrovano spesso uniti nella comune passione per Bacco. Il Ciacio, il più loquace, esprime ogni tanto un desiderio ricorrente: “Adesso mi servirebbe un bell’orinale di lambrusco, di quelli alti, di terraglia!”. Voleva porre in evidenzia la predisposizione al sacrificio, alla umiliazione pur di soddisfare lo smodato desiderio di gola. Ma non c’erano santi, con le poche palanche a disposizione per il pane e la polenta, il Ciacio doveva accontentarsi di acqua fresca.

Al poverissimo Schüster, carico di figli, il destino riserva una triste fine, forse dovuta ad una libagione di troppo. Lui beve piccolini ogni qualvolta si illude di avere qualche ventino libero da impegni immediati. Tiene il deschetto davanti ad una botteguccia minima in via Roma; di fianco alla porta la vecchia bicicletta. Venti volte al giorno porta il desco all’interno, accosta la porta, si butta il grembiule sulla spalla, inforca la bici e punta su una qualunque osteria. Non ha preferenze. Così fa in un tardo pomeriggio d’estate: quella volta parte verso il “cantone” sul quale via Roma fa angolo con la via Francesca, sbuca sulla strada verso la stazione contromano e incoccia in una delle rare automobili di passaggio, che sembra averlo atteso di proposito. I primi accorsi vedono una ferita sulla fronte, alla base del naso: molto sangue, ma non una cosa grave. Il Schüster è portato a casa e disteso sul letto. Il sangue non si ferma e allora viene chiamato il medico condotto, il dottor Carpino, che giunge in bicicletta un’ora dopo. Non può fare molto, dice che la ferita è grave perché c’è una emorragia interna. Gepe, avrà avuto sei-sette anni, fa parte del gruppo in sosta davanti alla porta, quella sera, a due passi da casa propria. E dopo qualche tempo qualcuno comunica che il povero  Schüster se ne è andato: senza drammi, tra la denutrita figliolanza, sotto gli occhi della moglie, una donnetta magra e sbiadita, che gira sperduta per casa col bambino più piccolo in collo.

Annibale, il padre di Gepe, è estraneo alla compagnia degli uomini al Palazzetto: lavora a Mantova a fabbricare mattonelle e la domenica lavora coi fratelli muratori per costruire le case di famiglia.

Per andare al lavoro e per tornare Nibale Merican ( così soprannominato perché è stato emigrante nell’America Latina) percorre ogni giorno ventidue chilometri su una vecchia bicicletta, con qualunque tempo. Non sono ancora state inventate le ferie, perciò i mesi di lavoro sono dodici; i giorni festivi infrasettimanali sono pochissimi, le ore di lavoro giornaliero nove o dieci; le due ore di bicicletta diventano anche tre nei giorni di pioggia e vento. Gepe ha un ricordo vivo del suo arrivo a casa nelle sere di pioggia, quando le giornate sono corte: Rosina che apre la porta esterna nel buio, il tremolare del fanalino a carburo – quando funziona – il colpo di vento e la pioggia che entrano in casa insieme alla bicicletta, il mantello fradicio e gocciolante. Segue il cambio degli abiti bagnati davanti al fuoco del camino; la cura serale delle mani cosparse di profondi tagli causati dal lungo contatto col cemento. Poi la cena, da solo, di fronte ai famigliari che hanno già cenato e che ora fanno compagnia a lui, muto di fatica. E subito dopo cena, a letto, nello stanzone freddo del primo piano per essere pronto al risveglio del mattino seguente, quando alla luce del giorno manca ancora almeno un’ora: deve essere al suo posto di lavoro alle otto.

Gepe ha rivissuto spesso le lunghe ore solitarie trascorse inginocchiato su una seggiola appoggiata al tavolo; il tavolo accostato al focolare, il più vicino possibile alla fiamma o alla stufetta di mattoni: nella grande stanza dal pavimento di cemento per molti mesi domina il freddo.

Ogni tanto Rosina accosta la porta e controlla a distanza quel bambino solo e silenzioso che gioca o scrive sul suo quaderno di prima elementare. Nella memoria di lui, timido e scontroso, resta scolpita la figura della madre in piedi tra i due cavalletti di legno che sorreggono l’arella in lavorazione; o sotto il gelso più vicino alla porta di casa, o in casa addirittura, sotto la finestra che s’apre a mezzogiorno, quando il freddo è troppo intenso per poter lavorare all’aperto. L’attaccamento assillante al lavoro ha un motivo preciso: si sta risparmiando per costruire la casa di via Scuole, un’abitazione troppo grande per la possibilità di guadagno dei due non più giovani sposi.

In casa non entrano mai parenti o amici, come non entrano giornali e libri: la prima carta stampata giunge coi libri della scuola elementare, peraltro in quel tempo poveri e disadorni, ridotti allo stretto necessario per l’apprendimento puro e semplice della lettura.

Neppure l’italiano parlato entra nel Palazzetto: vi domina incontrastato il dialetto di Rivalta, la sua cultura intrisa nella vita quotidiana di chi lavora nei campi o nella Valle.

Quella degli anni venti è povertà spirituale oltre che materiale; per fortuna in essa i genitori di Gepe non affondano senza rimedio, come accade ai più. Fin da quando è piccolo, sotto i dieci anni, Annibale e Rosina coltivano in segreto un desiderio ambizioso, che non viene mai meno negli anni duri che seguiranno: mandare il figlio a scuola, farlo studiare. Vogliono ad ogni costo sottrarre quel loro unico figlio alla indigenza e alle umiliazioni che li circondano e li esasperano. Una scelta sempre più difficile e pressante negli anni a venire, quando la disoccupazione diviene una tragedia, in stridente contrasto coi fantasmi di grandezza che il regime coltiva ed esalta.