Cap.4° Da Ferragosto alla vendemmia

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LA FIERA DELLE GRAZIE

Tutti, a turno, sono ammessi sul calesse quando si va alla fiera delle Grazie di metà agosto, l’avvenimento più importante dell’estate. Si devono percorrere tre chilometri da Rivalta, su una strada affollata di pedoni, ciclisti, carrettieri, carrozze, animali, bovini ed equini, che si muovono in branco.

Grazie è tutt’ora un piccolo borgo, noto per la chiesa del ‘300 dedicata alla Madonna, che ha dato nome e fama al paese. Nel tempo che qui si rammenta è famoso anche per la grande fiera-mercato del bestiame, alla quale si conviene dall’intera provincia.

V’è chi, per evitare la polvere e la confusione della strada (e per fare una cosa diversa) da Rivalta si reca al Santuario con la barca, percorrendo il Canaletto o il Mincio. Nell’ultimo tratto la chiesa appare tutta intera su un poggio sovrastante la Valle; e si risale sulla riva fuori dalla folla, a pochi passi dal Santuario. Vi sono alcuni pescatori a Rivalta che, più per rispettare una tradizione che per guadagno, si incaricano per qualche giorno del trasporto: tre-quattro persone per barca e giù con la corrente a favore; il ritorno in paese si fa quasi sempre a piedi.

Il movimento per la fiera comincia sulla strada il 10-11 agosto; anche da venti-trenta chilometri i contadini con buoi, mucche e vitelli, cavalli, muli e somari, di solito in gruppo, si mettono sulla strada, soprattutto di notte al fine di evitare la fatica del caldo. Alle Grazie vanno a parcheggiare in un immenso prato al limite sud dell’abitato, preparato allo scopo, in grado cioè di fornire acqua, fieno e paglia secondo il bisogno. Nel prato vengono radunate migliaia di capi di bestiame, in attesa del clou della manifestazione: il 15 agosto, giorno della Madonna, quando venditori, mediatori e compratori svolgono una attività frenetica e massacrante sotto il sole infernale.

È tradizione consacrata nel tempo che ogni commercio sul prato si concluda con la sera del 15. In quel giorno ( si dice e, generalmente, si crede) mosche e tafani scompaiono dalla zona: si tratta di un miracolo della Madonna – che si ripete ogni anno – a beneficio delle povere bestie, in altre occasioni tormentate da quegli insetti.

Il giorno seguente, S. Rocco, è dedicato esclusivamente alla fiera degli uomini: dei divertimenti, della balera, delle giostre, del circo, delle mangiate e delle bevute, che si protraggono per consolidata consuetudine anche nella sere dei due-tre giorni seguenti.

Intanto che sul prato si celebra la fiera del bestiame – il 15 agosto – sull’ampia piazza, lasciata in parte sgombra dai baracconi, si celebra la fiera dei fedeli. Essi si accalcano in folle sudate, pazienti e variopinte nella piazza, sul sagrato, sotto il portico antistante, in chiesa; perfino nella sagrestia e nel chiostro dei frati passionisti. Tra i fedeli si sparge una folla nutrita di postulanti, storpi, ciechi e mutilati, per i quali il raduno è una manna del cielo, una messe da cogliere a costo di farsi schiacciare moncherini e mani tra i piedi delle persone che premono da ogni parte; le loro lamentazioni salgono in mille toni al cielo ardente.

La messe di gran lunga più ricca però – dice la gente – tocca ai frati costretti all’improbo lavoro di raccolta delle monete di rame, nichel e argento che i fedeli vanno spargendo in continuazione sul pavimento della cappella dedicata alla Madonna: col sacco, la scopa e la pala da grano i “poveri” frati sono costretti a lavorare in quei giorni!

La zia Regina ha una sorella sposata residente alle Grazie; essa è – nientemeno – la moglie del Diavolo. Con questo epiteto più unico che raro è universalmente noto Luigi, il marito; che lo ha accettato e personalmente adottato. Non è particolarmente brutto Luigi: alto, secco di corpo e di viso, di pelo rossiccio rado e incolto, fornisce di sé un aspetto alquanto sinistro, in netto contrasto con la sua indole di buon diavolo, pacifico e cordiale.

A volte nel giorno di S. Rocco, si va in quattro o cinque da Rivalta a fare merenda in casa del Diavolo: si porta una spalla cotta di maiale – un salume prelibato, riservato alle occasioni speciali, del quale sembra che si sia perduta la ricetta –, un cesto di pane fresco e un piccolo assortimento di bottiglie di vino scelte nella riserva di nonno Enrico. È il Diavolo che tiene in sesto la compagnia: lui mangia poco e beve assai; e a conclusione della festa si lancia in un impegnativo assolo verdiano, esibendo a sorpresa una chiara voce tenorile.

Il 16 agosto e nei due-tre giorni successivi alle Grazie ogni sera chi può mangia e beve sotto ampie tende sostenute da pali infissi nel terreno. Nessuno esige bibite fresche, la temperatura ambiente è tranquillamente accettata. Solo in qualche posto di ristoro raffinato si trova qualcosa di fresco: gazzose (e che altro?) e qualche bottiglia di vino particolare, chiuse in speciali casse rivestite di lamierino, nelle quali si conserva, per quanto possibile, un po’ di ghiaccio. Se si pensa che quel ghiaccio giunge dalla città e si conserva avvolto in tessuti di juta per difenderlo dai trenta gradi di agosto, si può immaginare quale può essere il risultato pratico.

Il ghiaccio per le granite è custodito a parte, come un piccolo tesoro. Il rosso granatina e il verde menta dominano: solo che qui il tricolore non viene a riscaldare i cuori, ma a rinfrescare i palati.

I visitatori più piccoli sono attratti dai banchi dello zucchero filato e della tiramolla, leccornie preparate sul momento, sotto gli occhi di tutti, tra la polvere della calca e il turbinio delle mosche. Poi, qua e là, gli enormi mucchi di angurie, produzione locale, a prezzi stracciati. I rivenditori incoraggiano gridando: “Forza ragazzi, questo è sangue di drago; qui mangiate, bevete e vi lavate la faccia!”. Ed è proprio così, si mangia l’anguria accostando alla bocca la fetta a mezzaluna, i cui estremi finiscono alle orecchie. I ristoratori lottano per tenere lontane le mosche, con scarsi risultati; strisce moschicide pendono qua e là, ovunque sia possibile appenderle, nere delle prede catturate; gettano in continuazione secchi d’acqua negli spazi scoperti, tentando di vincere il caldo e la polvere. Qualche spettatore distratto si ritrova pantaloni e scarpe a mollo, alcuni ragazzetti espongono gambe e piedi alla doccia estemporanea. Per male che vada le scarpe si levano, si appendono per qualche minuto alla cintura e si cammina a piedi nudi, prestando attenzione alle scarpe altrui.

Gepe e Lino vagano insieme, alla ventura. All’età loro non attrae la giostra bassa, mentre quella volante è troppo rischiosa. Alla fine è il circo equestre che vince: ma costa molto e lo spettacolo del pomeriggio è notoriamente trascurato, per i ragazzi, appunto. Alla fine si entra e la delusione è inevitabile: sotto il tendone il caldo è soffocante, il chiasso degli spettatori insopportabile; ci si muove spesso dalla panca perché ci si sente appiccicati al legno. Quando si esce, si prova un reale senso di sollievo. Il circo è posto all’inizio del prato; date le sue dimensioni non può essere posto altrove. Tutto intorno sorgono le tende degli animali e i carrozzoni delle persone. Tutto questo per i ragazzi è l’annuncio di un mondo diverso e misterioso, sul quale sarebbe bellissimo poter gettare uno sguardo.

Chi vive vicino alle Grazie non va certo a visitare il santuario nei giorni della fiera, il momento del maggior affollamento; del resto ai rivaltesi sembra di conoscere a fondo la chiesa famosa da sempre. Fin dalla prima visita l’attenzione di ragazzi e adulti è attratta dalle file di statue di cartapesta, quasi sempre in grandezza naturale, che affollano le tre pareti, dalle cappelle laterali al soffitto; nonché dal coccodrillo imbalsamato, sospeso in alto al centro della navata. Si dice che il mostro sia stato catturato nei laghi di Mantova; o anche, in un fossato presso Curtatone nel lontano 1500; se ne parla come di una specie di drago favoloso, che ha minacciato a lungo la vita dei contadini e dei pescatori. Si legge da qualche parte che l’animale un giorno assale due fratelli e ne uccide uno; e che l’altro, fattosi coraggioso, con un’accetta uccide a sua volta il mostro. Un giovane prete addetto al Santuario un giorno spiega a Gepe che quasi certamente il coccodrillo è stato appeso nella chiesa, perché si voleva la presenza di un simbolo diabolico nel luogo sacro.

Le figure di cartapesta, legno e cera, rivestite di abiti veri o finti – a volte di carta o tessuti vili – sono oltre cinquanta, disposte su due ordini e occupano tre lati della chiesa; sono sostenute da impalcature lignee dipinte ed ornate in vari modi, spesso ingombranti e rozzi. Esse rappresentano donne e uomini: cavalieri, nobildonne, casalinghe, condannati a morte salvati in extremis dall’intervento della Vergine; soldati feriti a morte e sopravissuti per un miracolo; pellegrini o semplicemente, oranti, frati; perfino un cardinale, qui giunto per sciogliere un voto. Famose tra i conoscitori sono le statue di Filippo II  di Spagna, dell’imperatore Carlo V d’Asburgo, di papa Pio II, giunti in visita al Santuario nel ‘500.

Ben note fra il popolo sono alcune statue di personaggi niente affatto illustri: la “Miseria delle Grazie”, una donna malvestita, con cappello di paglia, divenuta tra i contadini proverbiale simbolo di povertà, di miseria, appunto; “Giovannino della mazzuola”, il quale non  è il condannato graziato, – come molti credono – ma il carnefice, chiamato ad uccidere un povero condannato mediante schiacciamento del cranio: il quale ultimo si salva perché sopravvive alla prima botta in testa (miracolo vero, imbroglio o testa di ferro); il suicida che si getta nel pozzo con un enorme sasso al collo e viene ripescato da due vispi angioletti, perché non è scritto in cielo che la sua ultima ora sia giunta…

Da grande Gepe ha occasione di leggere notizie interessanti sui risultati del lavoro di riordino intrapreso da alcuni giovani sacerdoti mantovani, inviati a sostituire i frati passionisti. In quella occasione sotto gli stracci che coprivano alcune statue sono rinvenute (del tutto dimenticate da qualche secolo) alcune splendide armature di metallo del 1500, dono votivo di capitani dell’epoca, opera dei Missaglia, i famosi armaioli milanesi del XVI secolo. Gepe può ammirare più volte le armature, esposte prima nella chiesa delle Grazie, poi nel Palazzo Ducale di Mantova. Altri elementi nel Santuario famoso accendono la fantasia dei visitatori; gli ex voto, quelli anatomici, innanzi tutto: mani, occhi, mammelle di cartapesta, arti di cera o di legno, stampelle e protesi offerte dai miracolati ed appese alla rinfusa alle pareti di vani accessori, soprattutto nel passaggio tra chiesa e sagrestia. Non interessa a nessuno invece l’ampia distesa di cuori d’argento che coprono le pareti della cappella dedicata a Maria; e sono oggetto d’interesse tra i colti e gli incolti le tavolette votive, spesso antiche, di pittori estemporanei, che coprono letteralmente alcune pareti, anche nel chiostro. Esse, oltre che illustrare il miracolo, offrono testimonianze di costume e di vita: vestiti, ambienti, utensili, mezzi di trasporto, macchine agricole sono rappresentate con realismo e precisione. Dipinti da dilettanti, a volte dallo stesso miracolato, queste opere mancano di tecnica ed enfatizzano gesti ed atteggiamenti, ma spesso rendono bene il senso tragico dell’evento. I colori sono vivaci e decisi, le proporzioni e la prospettiva approssimative o assenti.

Di alcune di queste tavole Gepe conserva un preciso ricordo, le ha osservate più volte senza fretta e lontano dalla folla dei visitatori. Esse illustrano a volte eventi sorprendenti, impensabili nel nostro tempo. In una, tra le più belle, si rappresenta lo scontro tra due carrozze: otto persone più i cavalli nel groviglio; e la Vergine nel centro, in alto – almeno lei al sicuro – , tra le nuvole di rito; in un’altra è illustrato un avvenimento storico, i francesi a Mantova, nel 1799, ed i Sacri Vasi profanati. Entrambe le tavole sembrano dipinte da pittori professionisti, o quasi.

Ci sono poi le scene popolari: un malato seduto nel suo letto, che invoca la Madonna; un cacciatore, al quale scoppia il fucile tra le mani. Una tra le più originali ci mostra un bambino che cade dal balcone di casa: è ancora a mezz’aria e già dieci braccia si agitano in alto a sottolineare la sciagura. Al generale gestire partecipa anche Gesù Bambino, che tende il braccio verso il miracolando. E un’altra, famosa: una carrozza si rovescia dalla scarpata con i suoi numerosi occupanti; nello stesso tempo due uomini si avvicinano con una barella, mentre uno spettatore sta bellamente seduto sul ciglio del fosso e alcuni contadini transitano incuranti sulla strada. Affinché sia chiara la causa della sciagura, il pittore colloca in primo piano la ruota uscita dal suo perno. La carrozza esce di strada presso Settefrati, all’altezza del ponte sul Caldone; si scorge la chiesetta della corte a sinistra della spianata. La tavola è del 1878.

Su tutte le tavole è presente la Vergine col Bambino con la sigla P.G.R.; spesso segnano data e località.

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VITA QUOTIDIANA

Per le condizioni generali del 1930-35, senza dubbio la famiglia del nonno Enrico è da considerare benestante; tuttavia vi si vive, anche per allora, in modo parco e misurato. Basta per convincersene, sedere a tavola in un giorno qualsiasi, nella grande stanza posta verso il cortile, che serve per cucina, e per tutto il resto. Le operazioni di cucina si compiono in un angolo presso la finestra, su un grande focolare affiancato da un enorme secchiaio di marmo. Sul piano del secchiaio stanno due o tre secchi di rame uno dei quali munito di coperchio e mestolo, è riservato all’acqua da bere e per cucinare. L’acqua, buona e fresca, si va a prendere in fondo al cortile, alla pompa posta sul muro esterno della stalla. A parete, sopra il secchiaio, sta appesa una grande rastrelliera per i piatti e le posate, di fianco e sulla cappa del camino sono distesi in bella mostra tegami di varie misure, pentole e pentolini di rame risplendente.

Il mobilio è ridotto all’essenziale: una grande tavola e una decina di sedie impagliate, una madia, una credenza bassa e un cantonale. Non vi sono mai state poltrone, divani, mobili da salotto o da studio nella casa.

Per sei mesi all’anno il fuoco del camino non è mai del tutto spento. Comunque una mezza fascina e un fiammifero lo fanno sprizzare all’istante: legna ce n’è sempre in abbondanza sotto il portico dei carretti e in un locale attiguo; è spesso compito dei ragazzi prepararla e portarla in casa, mantenendo colmo un vano posto sotto il focolare.

D’inverno si sposta il tavolo verso il camino, d’estate lo si allontana: si ha in questo modo il caldo e il fresco secondo il bisogno. Per i casi d’emergenza d’inverno c’è anche una piccola stufa di mattoni, posta di fianco al camino, che contribuisce per quanto può a mitigare il freddo.

Senza dubbio il riscaldamento nella casa dei nonni, come in quasi tutte le altre è un problema, ma non considerato essenziale come può apparire oggi. Si accetta come inevitabile che quando all’esterno si è sullo zero, in casa si possa vivere con sette-otto gradi sopra lo zero; nelle immediate vicinanze del focolare si può anche giungere ai quindici e oltre. Ci si può anche accostare alla fiamma fino a scottarsi il viso e le ginocchia: e ogni tanto lo si fa. Comunque i geloni alle mani e ai piedi sono un inconveniente comune accettato: ci si gratta e si tira via. Nella cucina-pranzo il fuoco del camino viene ravvivato con un buon carico di legna forte grossa nel tardo pomeriggio: si prepara così un grande mucchio di braci da porre negli scaldini per i quattro o cinque letti della casa.

Quando i nonni avevano superato i settanta, il muratore aveva costruito una stufa nella loro camera da letto: vi si accende il fuoco per alcune ore prima di sera, perché “si rompa l’aria”e sia meno sgradevole il momento di spogliarsi. Significa in pratica passare dai cinque gradi sopra lo zero ai quindici. Non si pretende di più: che d’inverno ci sia freddo anche in casa è naturale.

Solo per la stanze da lavoro delle due figlie magliaie si giunge all’acquisto di una stufa speciale, una Becchi in terracotta: là le zie lavorano sedute alle macchine tutto il giorno; e nei periodi di maggior lavoro, anche di sera. Inoltre, in quella stanza si ricevono le clienti: conviene fare bella figura e poterle fare sedere per due chiacchiere, non inutili perché possono rendere lavoro.

A cucinare provvedono zia Regina, esecutrice e nonna Erminia, dispensiera e cuoca. Le tagliatelle fini e grosse, impastate sull’asse apposita e spianate a mano, sono il primo piatto più frequente, in brodo o asciutte; in deroga, preparati con la stessa pasta e confezionati con il torchio a mano si confezionano bigoli e maccheroni; qualche volta si passa al riso.

Solo il pane si compera dal fornaio, ma spesso in casa c’è il pane rustico in grandi forme, che si acquista presso i contadini cotto in forni a legna nelle cascine: una squisitezza; e quando diviene raffermo, lo si biscotta nell’apposito forno posto sotto il focolare. Gepe ricorda con nostalgia le grandi zuppiere fumanti poste in mezzo al tavolo, colme di tagliatelle o maccheroni cotti nel brodo con la pestata di lardo e aglio, arricchito con le verdure fresche dell’orto! Il secondo piatto, una o due volte la settimana, è preparato con pollo o coniglio: ciò che resta a pranzo, serve a cena con la polenta; non esiste il frigo per conservare gli alimenti. Per gli altri giorni c’è l’affettato, quello preparato in casa sotto la guida del nonno (il quale faceva preparare dal norcino molte cose speciali, oltre ai soliti salami). Viene ogni tanto qualche pescatore a portare il pesce del Mincio: di solito si mangia a cena, fritto o bollito, accompagnato da un’ampia polenta che riempie il tagliere. La frutta spesso è abbondante, ma solo di stagione; in certi mesi niente frutta fresca, solo fichi secchi, castagne e noci; il dolce appare ogni tanto ed è quello preparato in casa e cotto sul focolare nella teglia di rame, col coperchio ricoperto di braci.

I ragazzi mangiano pane e polenta a volontà, pietanza misurata; se non va bene quanto è preparato si può saltare il pasto e nessuno se ne cura, a meno che non si denunci qualche malessere. A tavola non si gioca, non si parla, si è serviti nel piatto dall’adulto più vicino: nessuno si sogna di allungare le mani per servirsi da solo. Ci si alza e si esce quando lo fanno gli adulti.

Nonno Enrico è piuttosto serio, di poche parole; ama a tavola il vino bianco prodotto in casa, bevuto con misura: poco ma buono. Gli siede accanto Erminia, attenta a lui e sempre sorridente, l’unica persona che sa provvedere senza bisogno che lui chieda.

Nessuno ha mai sentito il nonno pronunciare parole dure o offensive, e lui non permette che altri lo facciano, men che meno i ragazzi. Neppure zio Vincenzo, il figlio quarantenne se lo può permettere; e il nonno non esita a riprenderlo quando lo stima necessario. Capita raramente che uno dei ragazzi commetta una mancanza considerata grave: in quel caso viene avviato per le scale del primo piano con due parole dette sottovoce: il nonno non grida mai. Ma se il reprobo non ha mangiato, all’ora del pasto può aspettarsi di fianco al letto la nonna Erminia con una gran tazza di latte, un pezzo di pan biscotto o di ciambella. Certamente anche nonno Enrico sa del benefico intervento della nonna, ma finge di ignorarlo per non compromettere la sua autorità.

Le prime volte che siede a tavola con i suoi ospitali parenti, Gepe è vivamente colpito nell’apprendere una situazione alla quale non ha mai pensato prima: i nonni Enrico ed Erminia non hanno più denti! In quel tempo questa è una situazione comune fra gli anziani; e comporta conseguenze spiacevoli, alle quali ogni tanto si accenna anche a tavola.

Oggi anche a Rivalta vi sono medici dentisti; e comunque con l’automobile in un quarto d’ora si raggiunge la città. In quegli anni andare a Mantova dal dentista significava perdere un giorno di lavoro e affrontare spese che per molti erano proibitive. Soprattutto, mancava un costume di vita che oggi è diventato comune: i denti si curano da quando si è bambini e per tutta la vita, perché fanno parte importante nel mantenimento della salute, oltre che del proprio aspetto.

I nonni masticano male, costretti ad usare le sole gengive, che – dicono – col tempo si sono indurite; possono mangiare solo certi cibi, preparati in un modo determinato. Ma la mancanza di denti ha anche fortemente alterato i tratti del viso: si può fare un confronto significativo osservando una grande foto appesa al muro, eseguita prima del 1900, quando essi sono solo quarantenni. Enrico – in particolare – vi appare un giovane uomo dall’aspetto piacevole, senza la minima traccia di rughe. Due grandi baffi sottolineano l’atteggiamento serio del viso, incorniciato dai capelli grigi finemente ricciuti (il figlio di Gepe, Enrico li aveva uguali da ragazzo; ora li ha solo ondulati).

Erminia è una credente osservante, semplice e pratica, estranea ad ogni forma di esibizionismo.

Ogni momento del giorno è buono per una breve preghiera a fior di labbra; ma non si prega a tavola prima del pasto (non v’è questo costume in casa): forse voleva evitare di far mostra di sé o di importunare chi non fosse d’accordo con lei. Non è il tipo che vuole imporsi!

I suoi principi nella fede sono semplici e concreti, spesso ripetuti ai suoi nipoti: non fare agli altri ciò che non vorresti che fosse fatto a te; Dio vede e Dio provvede; bisogna perdonare settanta volte sette a chi è ingiusto con noi. Altri, più che principi di fede, sono norme di vita quotidiana, che lei ama collegare alle sue preghiere: aiutati, che il ciel t’aiuta; Gesù è sceso dall’asino che lo portava per raccattare un boccone di pane nella polvere (nulla deve essere sciupato!); Dio non paga al sabato; come si naviga si va a riva… Era lei che avviava i suoi nipoti con dolcezza e decisione alla messa e alle “funzioni” domenicali del pomeriggio; era lei che due o tre volte al mese, il sabato pomeriggio, insisteva perché i suoi nipoti di casa si recassero in chiesa, nell’ora in cui don Bodini attendeva i ragazzi per la confessione. Accompagnava la loro partenza verso la chiesa con una raccomandazione spesso ripetuta: “Raccontate tutto al prete, anche quello che nascondete a me; tanto lui non mi dice nulla”.

Con don Bodini per i maschi il sacramento si celebra a quattr’occhi, in un locale che precede la sagrestia e comunica direttamente con la canonica: i “peccatori” si sistemano su un inginocchiatoio minimo, il ministro seduto molto vicino, forse perché è anziano e un po’ sordo. La lingua in cui si celebra il rito è quella di Rivalta, il mantovano grosso ed aspro del paese. Ma Gepe proviene da Milano e ha letto qualche libro: così una volta gli pare bello usare qualche vocabolo in italiano, magari desueto, e confessa a don Arnaldo che ha commesso qualche “peccato di disonestà”. Don Arnaldo si scuote, spalanca gli occhi ed alza la voce: “ Cosa? Ma quanti anni hai? Non sei il nipote di Enrico Castagna tu?”. Gepe assente e don Arnaldo ritrova subito il sorriso, ridacchia per conto suo e “Va ben, va ben, andòm avanti…”. E la confessione continua senza intoppi, speditamente, in lingua rivaltese; la quale non può dar adito a dubbi e fraintendimenti. Fino alla preghiera finale, recitata tutta d’un fiato, con foga: “O Gesù d’amore acceso, non vi avessi mai offeso! O mio caro e  buon Gesù non vi voglio offender più; ma piuttosto morirò e mai più vi offenderò!”. A Gesù ci si rivolge in lingua italiana…

Gepe ha detto finora di Erminia nonna buonissima e cuoca esperta. Ma quando ripensa a lei, la rivede in un atteggiamento particolare: seduta su una sedia, d’inverno tra finestra e focolare, d’estate sulla porta che dà sulla piazza, i piedi appoggiati su un seggiolino, tra le mani la calza – è rapidissima nel lavoro con gli aghi lunghi – gli occhiali sul naso e sulle ginocchia un libro: legge muovendo appena le labbra, ore e ore ogni giorno; nello stesso tempo lavora alla calza, senza sbagliare un punto.

Di domenica la nonna va in chiesa prestissimo; quindi dopo la messa, dalla chiesa passa direttamente in canonica. Qui, in una grande stanza, sono raccolti i libri della biblioteca parrocchiale, l’unica di Rivalta e dintorni: prende un paio di libri a prestito – la sua razione settimanale – e piano piano se ne torna a casa, sorridente.

Rosina dice che la nonna ha sempre fatto così; in quel modo, un po’ per giorno, ha letto più o meno tutti i libri esistenti in paese. Alcune clienti delle zie magliaie ogni tanto portano libri; Gepe le porta tutti i libri che ritiene alla sua portata o di suo gusto. Per lei ne prende a prestito anche nella biblioteca della sua scuola a Mantova.

Nonna Erminia se ne va all’improvviso in una notte d’autunno del ’37. Tocca a Gepe prendere per mano nonno Enrico, che piange come un bambino e non vuole allontanarsi da lei già stesa nella bara. Quella volta Gepe e Enrico si trovano a piangere insieme. Sulla sedia da lavoro di lei il giorno dopo rinvengono alcuni libri e gli occhiali infilati in uno di essi, per segno.

Da quel giorno il nonno perde ogni voglia di vivere; campa altri cinque anni, quasi senza parlare, senza più sorridere.  “Ora” dice ogni tanto  “non ho più paura di morire” .

Le zie Anna e Maria non partecipano ai lavori di casa; siedono tutto il giorno in una stanza, posta verso piazza, presso un grande tavolo quadrato, appesantito da due lastre di marmo, sul quale sono fissate tre macchine per maglieria. Hanno molto lavoro e non si fermano neppure per parlare con le clienti: lo fanno lavorando (e in certi periodi tornano al lavoro dopo cena).

Una volta alla settimana una di loro va a Mantova e ne riporta enormi pacchi di matasse variopinte di lana: in quel tempo non v’è alcun negozio in paese; e d’altra parte non si stima affidabile la maglieria confezionata in fabbrica. Sono sui trenta e trentacinque anni e zia Anna, la più giovane, è uscita solo da qualche anno dal travaglio della tragica vicenda nella quale ha perso la vita Cesare, il suo promesso sposo.

Zia Regina viene da una famiglia di contadini: è una donna semplice, lavoratrice e molto comprensiva; anche col marito che, a quanto si dice in casa, non sempre merita indulgenza. Spesso egli mostra apertamente di disistimare la moglie, accusandola di scarse doti domestiche o di scarsa  intelligenza; qualche volta le sue osservazioni sconfinano nella ironia rude e villana; ma se è alla portata del padre non può evitare qualche severo richiamo. D’altra parte lo zio è un lavoratore instancabile, attaccato al guadagno e al risparmio, al punto che il nonno lo rimprovera per certi comportamenti non proprio corretti verso qualche cliente.

Dei tre ragazzi di casa Gepe è il più anziano; Lino ha un anno di meno, Giuseppe – o Geppino – quattro. In quanto residenti sulla piazza sono considerati molto fortunati dagli amici: basta loro uscire di casa per ritrovarsi fra compagni di gioco.

D’estate sulla piazza si organizzano spettacoli serali: i “salti” e i burattini. Arriva ogni tanto un circo equestre minimo, allestito alla meglio, nel quale lavorano oltre ad alcuni famigliari, un cavalluccio, l’asino intelligente, il cane ammaestrato e, magari, un animale esotico nato in provincia. Vincenzo e i ragazzi vanno a sedersi sulle panche di prima fila, o sulle sedie portate da casa. Il più entusiasta è lo zio. Per non perdere nulla dei “salti” (lui chiama così il circo), cena da solo per primo, quindi si avvia con il braccio infilato nella sedia ed entra prima dell’inizio. Ci tiene ad essere di casa e cerca di parlare con qualcuno della compagnia; preferisce gli specialisti degli “sforzi”: il nerboruto che fa saltare la catena gonfiando il torace, il robusto che sostiene sei persone su corpo e braccia, il sollevatore di pesi che si carica, senza sforzo apparente, di una lastra di marmo del peso garantito di trecento chili. Spesso arriva anche – dalla città – la baracca dei burattini; si colloca a contatto della casa dei nonni per usufruire con facilità dello stesso impianto elettrico: in compenso offre lo spettacolo gratuito per tutta la famiglia.

Davanti alla baracca è per tutti necessaria la sedia di casa, da collocare nello spazio destinato alla platea, delimitato da una corda tesa su alcuni pali. Anche qui l’entrata si può pagare, oltre che in soldi, anche in natura: uova e noci sono la merce meglio accetta. Il pubblico non pagante, numeroso e rumoroso, staziona dietro la platea, in piedi, in un ricambio continuo di spettatori.

Le commedie che rappresentano le vicende di Fagiolino e Sandrone sono a tutti note da sempre; il pezzo forte si intitola: “Sandrone ai bagni di Salsomaggiore”. Lo zio ne conosce intere scene a memoria e le declama di giorno, mentre svolge il suo lavoro.

LA VENDEMMIA

Fra tante occupazioni interessanti e diverse, i mesi delle vacanze in campagna di Gepe volano. A fine settembre giunge il lavoro più impegnativo; e anche più gradito, la vendemmia. In quei giorni  sono tutti in campagna, restano a casa solo la nonna e le zie magliaie. Il nonno, lo zio, la Regina sono impegnati nel trasporto dei cestoni pieni d’uva dal vigneto al carretto e alla cantina.

Si vendemmia prima l’uva bianca, si provvede a pigiarla e a riporre mosto e graspe nel tino. Una decina di giorni dopo si toglie l’uva nera e il mosto viene fatto fermentare in una grossa botte, nello stesso locale. Il cortile e i locali intorno sono invasi dai moscerini e ovunque giunge l’odore acre del mosto che fermenta; i grandi assaggiano spesso il nuovo nettare dell’anno, promessa rinnovata di intimità e di amicizia.

Nonna Erminia nel giorno della pigiatura entra in cantina coi paioli di rame e preleva il mosto col quale preparare il sugolo e il vino cotto. Lei e Regina dovranno trascorrere molte ore davanti alla fiamma del camino, tra paioli e zuppiere. A pranzo e a cena il sugolo è l’invito più forte: non lo si assaggia dal settembre dell’anno precedente; il vino cotto, dopo ore di bollitura, posto in grosse pentole di terra cotta, denso e ricco di frutta a spicchi, arricchirà pranzo e cena nel prossimo inverno, quando la bruma imbianca le zolle e i grappoli maturi, pendenti dai tralci, saranno solo un dolce ricordo.