Cap. 11° Le feste di Rivalta

002-la-prima-foto-di-gepeLe “feste”, le ricorrenze della tradizione popolare, sono molto sentite e seguite. L’ultimo giorno dell’anno e il primo di gennaio sono feste che necessariamente si celebrano al chiuso, in modi diversi, in relazione all’età: nelle osterie e nelle case conviviali gli anziani (gli “sposati”, di qualunque età, sono considerati tali); al teatro Italia i giovani, ad attendere il primo giorno dell’anno fino all’una di notte (è l’unica occasione nella quale il ballo si protrae oltre la mezzanotte); la sera di capodanno il ballo si ripete, come si ripetono, con minor foga, i riti propiziatori nelle case, davanti alle tavole imbandite. In quei giorni i rivaltesi sono sicuramente tutti in paese a festeggiare, anche i giovani: non ci sarebbe stato molto gusto ad andare in giro in bicicletta nel gelo della notte, per far compagnia alla morosa. La mattina del primo gennaio anche i bambini sono interessati alla festa: i maschi – soltanto loro – girano per le case a fare gli auguri di capodanno. A volte ricevono in cambio una monetina di rame (una palanca o un palandone, di rado un ventino), qualche dolce, un’ arancia; più spesso un “altrettanto” ironico, gridato dalla finestra socchiusa. Le femmine per quel giorno se ne stanno chiuse in casa, ben custodite dai parenti: una ragazzina che si presenti in casa d’altri a fare gli auguri viene considerata portatrice di sfortuna. Nientemeno!

Il sei gennaio giunge l’Epifania, la vecchia fantastica che scende dalla gola del camino. Da noi è pressoché sconosciuta come portatrice di regali; in fatto di regali tutto si esaurisce con S. Lucia, il 13 dicembre; neppure Gesù Bambino è generoso con i rivaltesi. Dopo il 1930 a Rivalta giunge notizia di un personaggio nuovo e incomprensibile, la Befana: essa rimane sempre qualcosa di estraneo e lontano. Tutt’al più riguarda alcune città importanti: a noi tocca solo qualche immagine nel film Luce al cinema–teatro Italia la domenica sera.

Anche il carnevale, che tanta importanza ha assunto nel presente tempo da ricchi, è una specie di vago e poverissimo evento, senza senso per gli adulti, salvo che per “i dolciumi di carnevale”, che compaiono nelle case più fortunate. Gepe, avrà avuto sette-otto anni, si rivede rivestito di una vecchia sottana di sua madre stretta sotto le ascelle, il viso tinto di caligine e un bastone in mano in mezzo ad alcuni amichetti del Palazzetto. Quel corteo dura pochissimo: non ha percorso venti passi sulla via Voltazzola che un discolo di dodici-tredici anni aizza loro contro un cagnaccio ben noto, sguaiato e petulante, che li mette in fuga disordinata; proprio per questo a Gepe è rimasto quel ricordo. Per quell’anno il carnevale del Palazzetto finisce lì.

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Popolarissimo è l’annuale ritorno di “Cioca mars”: Batti marzo, fonte di speranza, sicurezza e tormento per le belle e le brutte di Rivalta sul Mincio. È risaputo che la vicenda amorosa rievocata dalle grida scomposte dei ragazzacci del paese per ognuna delle ragazze da marito non è casuale; né è giunta per caso agli attori di battimarzo da voci vaghe e imprecise. Dietro la filastrocca, ora amorosa, ora ingiuriosa, vi sono suggerimenti interessati, desideri ignorati o ben noti, volontà di rivalsa o vendetta: concentrati nel finale. Per questo le parole della sequenza sono ascoltate con estremo interesse dagli adulti, dalle donne in particolare, perché dallo sproloquio dei ragazzi è possibile a volte prevedere il destino gioioso o doloroso delle zitelle locali. Il battimarzo comincia puntualmente il primo giorno del mese e si protrae, snodandosi per vie e stradelle, per tutta la prima settimana. Due o tre gruppi di ragazzi sui dodici–quattordici anni si dividono il paese e si pongono in opera all’ora di cena, muniti di latte, bidoni e vecchie pentole di metallo; su di esso battono nella maniera più rumorosa e scomposta possibile, subito dopo l’ultima parola, la più importante. La filastrocca si spiega su due voci, quella del banditore e quella del coro: “Ciòca mars… ecc. / lunga na contradela / ghe na bèla pütela / chi éla chi non éla / la Virginia bèla /chi gomi da dà? / Faustino inamurà!”: “Battimarzo… / lungo una contradella / c’è una bella ragazza / chi è chi non è / la Virginia bella / chi le dobbiamo dare? / Faustino innamorato!”. Se Virginia e Faustino sono possibili o già sicuri innamorati, tutto bene… Ma possono nascere guai se Faustino rappresenta un amore respinto o un amore impossibile per Virginia… I casi comunque sono tanti e diversi; e i due nomi gridati nella pubblica via tra orecchi interessati e non sempre innocenti, possono dar seguito a guai più o meno cocenti, alle ragazze innanzi tutto. Purtroppo v’è anche, non raro, il caso della beffa impietosa e umiliante… Abita, per esempio, in via Roma una giovincella belloccia ma, a quanto sembra, di eccessive pretese, che tira avanti da un anno all’altro senza un cane di pretendente. Per molti anni la poveretta è bersaglio di un Battimarzo rozzo e crudele: “…/ chi éla chi non éla / La D. bela / chi gomi da dà? / l’asan da Mota inamura!” (tradotto: l’asino di Motta innamorato!) È quest’ultimo un “personaggio” (si fa per dire) divenuto proverbiale tra i rivaltesi in quanto somaro di sesso maschile, che il proprietario, il signor Motta, noleggia per la continuazione della specie tra i contadini della zona, con lusinghiero successo. Si può star certi che le ragazze beneficiate da un simile pretendente per molti giorni si guardano bene dall’uscire di casa.

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Quella del venerdì santo è una giornata memorabile, dalle prime ore del mattino alle undici di sera. Incomincia con la visita al “sepolcro” allestito in chiesa nella cappella dedicata alla Madonna Addolorata. V’è sul pavimento e sul piano dell’altare una distesa di vasi piccoli e grandi, nei quali sono state da qualche mese seminate e amorosamente coltivate piante di varie specie. Nella luce scarsa in cui sono state conservate, esse si sono allungate in gambi sottili e ricadenti di un verde esangue. Vengono portati in chiesa dalle donne fin dal giovedì, affinché il sagrestano possa adornare la cappella del sepolcro. La visita al sepolcro è completata dai ragazzi con quella della cella campanaria, buia e misteriosa, nella quale pendono inerti le funi delle campane: per tutto quel giorno e fino al sabato mattina inoltrato le campane restano “legate”: cioè, diventano mute, non si possono suonare: il loro silenzio sottolinea il cordoglio dei fedeli per la morte di Gesù; a Gepe piace immaginare che una vera fune le avvolga – castello, batacchio e ruota – perché nulla si possa muovere sul campanile. Così, a metà giornata, al posto del rintocco della campana maggiore annunciante il mezzogiorno, il segnale viene dato in maniera desueta da Piero sagrestano: accompagnato da un chierichetto in funzione di aiutante, Piero compie il giro del paese azionando con energia la battola, mentre l’aiutante gira la raganella. Naturalmente, il mezzogiorno in quel venerdì inizia alle 11,30 e s’estende ben oltre le 12,30: il tempo che serve a Piero per fare il giro del paese. La processione serale del venerdì santo è la manna del cielo per i ragazzi: significa libertà, comunella e imprevisti spassosi di ogni genere, il tutto favorito dal buio, un buio che s’impone alla scarsa illuminazione pubblica ed alla luce smorta delle candele recate dalle donne in processione. Il percorso a passo lento, regolato su quello  dei portatori della Madonna e di don Bodini (che li precede), è interrotto da frequenti soste, determinate dalla fede (gli altarini improvvisati lungo la strada) o da cause di forza maggiore (la fila si rompe e un troncone si stacca dall’insieme); dura non meno di due ore, durante le quali l’Addolorata completa il giro di Rivalta: via Roma, Stazione, Madonnina, cimitero, Voltazzola, piazzetta Arrivabene: qui v’è una sosta obbligata perché la Madonna possa allungare lo sguardo verso la via Mincio, segnalata da due lunghe file di palloncini colorati. Sotto di essi sostano devotamente i vecchi ed i piccolissimi della via che la processione non può percorrere. Poi di nuovo via Roma e piazza Chiesa. In quel tragitto avventuroso, tra i palloncini di carta colorata appesi alle porte e alle finestre, ai fili tesi sui cancelli e sulle entrate ai cortili, può accadere di tutto nella turba dei ragazzi che camminano tra la doppia fila delle donne oranti… Tra l’altro, ai ragazzi basta perdere qualche passo per trovarsi mischiati alla turba degli uomini che seguono in coda: qui la possibilità di scherzi, giochi e dispetti aumenta, ma di pari passo aumenta anche la possibilità di rimediare per mano degli adulti qualche scapaccione improvviso e pesante. Gepe non è tra i promotori del disordine, ma non gli dispiace assistervi: gli accadimenti, le sorprese sono continue, la fantasia di certuni vivissima. V’è chi, lungi dall’essere intimorito dalla presenza di Piero Sagrista in funzione di moderatore, passa all’offensiva: allora Piero, da pacificatore manesco diventa bersaglio e vittima.

Nei giorni di venerdì e sabato precedenti la Pasqua nelle case si rispetta un’altra tradizione, questa volta con l’aiuto dei ragazzi più piccoli, più o meno sotto i dieci anni. Una delle donne di casa stacca dal sostegno murato all’inizio della gola del camino la catena a cui si appendono le pentole sul fuoco. Da un anno all’altro la fuliggine la ricopre di uno spesso strato nero che si vuole togliere in occasione delle grandi pulizie di Pasqua: e i ragazzi sono destinati all’occorrenza. Si lega un filo di ferro al rampino della catena e si va in giro per le strade, nessuna delle quali è asfaltata, cercando possibilmente di trascinare la catena sul ciglio, dove sabbia e ghiaia smosse offrono l’attrito più idoneo alla pulizia. Ogni ragazzo riceve una piccola mancia per il lavoro svolto; ma più che la mancia, attira la possibilità di vagare a piacere per le strade della periferia senza il controllo degli adulti di casa. Se non v’è troppo freddo, si cammina scalzi: il contatto diretto col suolo è piuttosto rude, ma dà anche un piacere nuovo, stranamente eccitante. Vi sono ragazzi intraprendenti che in quell’occasione cercano di mettere insieme un piccolo gruzzolo da spendere in libertà: vanno per le case a chiedere se v’è la catena da lucidare; e girano trascinandosi dietro, legate l’una all’altra, tre o quattro catene in fila. Da giovedì a sabato, oltre le pulizie rituali, le donne di casa si assumono un impegno straordinario in cucina.

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Ci si è premuniti da tempo in famiglia, al fine di averli a disposizione per la domenica e il lunedì di Pasqua, gli agnoli in brodo di pollo e la torta margherita, il dolce tradizionale a base di uova sbattute, zucchero e farina di patate: un dolce soffice e profumato, di non facile cottura. Per questo, affinché la riuscita sia ottima, le cuoche di casa prendono accordi col fornaio e portano a lui il dolce preparato, perché provveda, appena ha finito la cottura del pane. Si crea così nel pomeriggio un continuo via vai di teglie luccicanti di rame dalle case ai forni del paese; e una delicata fragranza – segno inconfondibile della Pasqua – aleggia per le vie di Rivalta.

Il rito della torta margherita supera in importanza quello delle uova sode colorate, che interessano solo i bambini; e neppure tanto, dato che nel pomeriggio dei due giorni festivi v’è in giro poca voglia di masticare uova sode; delle uova di cioccolato autarchico meglio non parlare.

Dopo la Pasqua seguono i Vespri della Madonna, che durano per l’intero mese di maggio. Poiché a Rivalta molte donne lavorano fuori casa, don Bodini, per dare maggiori possibilità di intervenire, procrastina l’inizio del Santo Rosario a dopo il tramonto: basta anticipare di mezz’ora la cena per potervi partecipare. I fedeli maggiormente interessati al vespro sono ragazzi e ragazze sui quindici–sedici anni. Avvengono sotto lo sguardo materno e benevolo della Madonna del Rosario i primi incerti tentativi di avvicinamento; lo scambio, tra un mistero e l’altro del Santo Rosario, dei primi sguardi, carezzevoli e pudichi. All’uscita dalla chiesa nascono motivi per attardarsi un momento o allungare il passo, complice il buio completo di piazza Chiesa, dal sagrato alla prima lampada di via Roma. Il mese della Madonna per i principianti in amore è provvidenziale: dipendesse da costoro, l’omaggio serale alla Vergine si prolungherebbe fino a settembre. In quei giorni si realizza ogni tanto un approccio destinato a consolidarsi negli anni seguenti. Naturalmente, dai diciotto in poi la tutela della Madonna non è più cercata: si trovano spazi diversi e occasioni più terrestri. È proprio dai vespri di maggio, durante i quali il rosario è la preghiera fondamentale, che nasce in Gepe uno strano modo di vivere la fede, collegandola alle piccole vicende quotidiane: allora ha tredici–quattordici anni, un piede nell’adolescenza e uno nella giovinezza. Un giorno si convince di avere bisogno in una certa evenienza dell’aiuto della Madonna: si impegna con la promessa della recita di un rosario; impegno che sul momento viene rimandato. Il giorno seguente promette un altro o altri due rosari; i quali in seguito diventano quattro, sei e via di seguito. E rimanda l’esecuzione a momenti migliori, trova di avere altro da fare, a cui pensare…  Senonchè, forse perché ciò che lui desidera s’era verificato, continua a tempo indeterminato nella promessa e nell’impegno. Si sente a disagio per l’inadempienza, ma continua a chiedere favori ed a credere che essi gli siano concessi per effetto della promessa. Dopo un mese o più si trova debitore di un centinaio di rosari (anche la contabilità si fa complicata) e gli pare che cadrebbe in grave peccato se negasse l’impegno assunto, un peccato meritevole di un castigo esemplare… Forse ad un certo punto lo soccorre una subentrata maggiore maturità psicologica… e piano piano dimentica l’assurdo impegno.

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Dopo alcune settimane dalla fine dei vespri giunge un’altra importante ricorrenza: il 21 giugno è la festa di S. Luigi Gonzaga e la domenica successiva don Bodini ordina la processione. La festa interessa in modo particolare i giovani, innanzitutto, perché Luigi è un Santo giovane; poi è il Santo dai costumi illibati, come dovrebbero essere quelli dei giovani rivaltesi; per di più egli proviene dalla grande famiglia dei Gonzaga, che sono stati signori di Mantova per alcuni secoli: tutti motivi validi perché la festa sia davvero solenne. La domenica pomeriggio, di solito l’ultima di giugno, la celebrazione comincia verso le cinque in chiesa, ma la processione esce soltanto verso le sette, perché in quell’epoca, nel pomeriggio, il sole picchia forte in Padania: comunque, il giro del paese costa fatica e sudore. La statua – veste nera e cotta bianca come i chierichetti – il giglio candido nella mano destra, a simboleggiare la purezza del giovane Gonzaga, è già stata tolta dalla sua nicchia e sistemata dal mattino al posto d’onore, in mezzo alla chiesa. Da qui alle sette la tolgono i quattro giovani che la porteranno, alternandosi con altri, per il lungo giro nel caldo afoso del pomeriggio avanzato. Lo stradino comunale ha provveduto più volte durante il giorno a passare sul percorso con la botte dell’acqua; senza di che, al tormento del caldo si aggiungerebbe quello della polvere sollevata dallo scalpiccìo dei fedeli. Non vi sono luminarie al seguito di Luigi, basta e avanza il sole estivo. V’è però un particolare di estrema importanza: le ragazze, dai dieci ai trent’anni, si recano in processione portando in capo un lungo velo bianco, ricadente sulle spalle fino ai fianchi: è il simbolo della purezza, la virtù della quale il Santo è il campione. E qui nasce un problema molto sentito, di cocente interesse per i giovani che seguono la processione: quel velo bianco, richiamo all’ illibatezza, si addice a tutte le ragazze che lo portano in capo? A quelle belle e formose, alla Piera per esempio, alla Gina, alla Mafalda…? Dalla quale non retorica domanda fioriscono, strada facendo, nel folto gruppo dei giovani, ipotesi, notizie riservate, sussurrate all’orecchio di un vicino amico, non tanto però da non poter essere colte da qualche interessato alla cronaca sentimentale. Insomma, per qualcuno quel velo bianco è un documento inoppugnabile di fronte al quale deve cadere ogni dubbio; per qualche altro esso può anche essere un inganno, consumato con malizia ai danni della società giovane di sesso maschile… È, in ogni caso, un atto pubblico di estrema importanza, con il quale ogni singola ragazza si assume in proprio una responsabilità a tutto campo! Altro che storie…  Anche Gepe segue con un certo interesse, nei due tre anni che precedono la guerra, il dibattersi di quel problema; che, naturalmente, è un problema di sempre; ma a causa di quel velo bianco, in quel giorno particolare, esso diventa incalzante…

 

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La fiera delle Grazie giunge con la Madonna d’agosto, nei giorni 15 e 16, ed è per Rivalta un avvenimento popolare di straordinaria importanza, senza dubbio il più sentito dell’anno, più della sagra di Rivalta di fine settembre, nel giorno dei SS. Donato e Virgilio, i patroni del paese; più del pure importantissimo giorno di Natale. Della fiera famosa, di come i ragazzi la vivono, Gepe ha già accennato altrove. Qui si vuole chiarire che i rivaltesi non visitano abitualmente il santuario in mezzo alla ressa dei fedeli d’agosto: vivono a tre chilometri dalla benigna Madonna e si recano spesso a vederla, a piedi, in bici o in barca, di domenica, dalla primavera all’autunno. La Madonna delle Grazie è tra i paesani la più nota e famigliare, per molti l’unica valida. Mamma Rosina la nomina più o meno invano decine di volte ogni giorno; Nibale e suo fratello Pierino Merican la citano con troppa frequenza e senza alcuno spirito devoto. Pierino, dall’eloquio fiorito, sul di lei nome esercita sproloqui peccaminosi senza alcuna malignità o cattiveria: le sue non sono vere imprecazioni, ma un modo troppo energico di chiedere un aiuto o di lamentarsi dei piccoli infortuni quotidiani: e anche qui non si tratta di una Madonna qualsiasi, ma di quella ben identificata delle Grazie. Lei è in ogni caso una persona di famiglia, vive, gioisce e tribola con la gente, pur collocata nel pensiero di ciascuno in fondo all’ampia cappella a lei dedicata, fiorita di cuori e stampelle. Lo spettacolo della fiera si dispiega per i paesani sulla via della stazione, alla quale convengono, proprio all’altezza di Rivalta le due strade da Rodigo e da Goito, da ovest e da nord. Tre o quattro giorni prima, soprattutto di notte, scarpinano (per modo di dire, perché al massimo si calzano zoccoli o rustici sandali) verso le Grazie i bifolchi della provincia, verso il “prato della fiera”, allestito dal proprietario signor Zingari, universalmente noto: buoi, mucche, cavalli, muli, bismuli e somari, liberi, in branco o alla cavezza, convergono dalle zone periferiche della provincia sulla strada Francesca: e insieme al bestiame, carri, carretti, birocci e biroccini… Il 15 e il 16 la strada torna dominio degli uomini, fedeli o festaioli, a piedi, in bici, in biroccio; famiglie intere viaggiano sul carretto, sedute su panche improvvisate fra le sponde, o sulle sedie di casa in bilico sul pianale. Dal 17 ricomincia in senso opposto il transito degli animali e degli uomini; il tutto si esaurisce entro il 18 agosto. A quel punto le strade risultano del tutto sgombre, anche dagli escrementi: i contadini più prossimi alle strade raccolgono in quei giorni il letame dell’orto per tutto l’anno. Nei giorni seguenti Gepe e Lino in giro per la campagna con zio Vincenzo sentono narrare di avventure e disavventure di bestie e di cristiani, di prezzi, affari e imbrogli…; le donne di famiglia sussurrano per sentito dire delle eventuali grazie che la Madonna ha ritenuto di elargire; gli invidiosi delle”palanche” che i frati hanno raccolto in gran copia sul pavimento della cappella.

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La sagra di settembre a Rivalta è ancora,negli anni trenta, fedele alle sue origini: è il giorno nel quale anche i poveri mangiano e bevono a volontà. Per questo, perché partecipino all’abbondanza, si invitano parenti e amici di fuori. Tutto il resto conta poco, la giostra, il tiro a segno, i tre banchetti di tiramolla sono un contorno che interessa solo ai bambini. Desiderato e atteso con impazienza per Gepe e i suoi coetanei (di lì a poco si sarebbero trovati in grigioverde a giocarsi la vita) è il ballo nel teatro Italia o nelle balere vaganti. Nella settimana della sagra si balla tutte le sere, spesso anche di giorno; è questo il periodo d’oro per chi sogna una morosa d’occasione; può trovarla tra le ragazze che piovono dai dintorni: vengono da Fossato, da Grazie, da Sacca di Goito soprattutto. Sono paeselli senza pretese, ben noti tra i rivaltesi per le ragazze che vi abitano, nome, cognome e referenze. Sacca è quello più noto per via di alcune “cavalline” sbrigliate che si lanciano nell’avventura senza ponderare il pro e il contro: il primo amore di Gepe, del quale capiterà ancora di parlare, Lina, mora dagli occhi verdi, è proprio di Sacca. Un certo pomeriggio capitava inaspettato nella balera un gruppo di sette-otto ragazzine piene di verve, che all’istante si conquistavano un codazzo di ammiratori: “Sono quelle di Sacca” si sussurra. Le nostre ragazze le vedono male perché sottraggono loro un gruppo di giovani compaesani entusiasti delle novità: con quelle di Sacca si può dal primo ballo porsi guancia a guancia; e non si tirano indietro se nel tango il braccio stringe forte nella “vite” finale. Da Rodigo capoluogo, invece, ragazze non ne arrivano. Per loro, cresciute all’ombra del Municipio, ballare a Rivalta significa squalificarsi senza costrutto. Vi furono alcune rodighesi che amarono ragazze locali, ma non a vuoto: con quelle ci si sposa o si gira al largo, questa è la loro fama tra i giovani del paese.

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Ottobre, il mese delle ultime vendemmie, della pigiatura, della torchiatura e dei primi travasi tra fratte variopinte sotto l’ultimo sole caldo, riempie le vie dell’odore acre del mosto appena diventato vino. Anche in paese buona parte delle famiglie si prepara un po’ di vino in casa, magari con la sola uva dell’orto. Non di rado il tentativo fallisce (manca l’informazione tecnica, sono scarsi e poco noti i correttivi), ma il vino non si butta che in casi eccezionali: ci si accontenta, si è più generosi con gli amici se si temono guasti crescenti nel vino novello. Non si organizzano feste dell’uva nella zona; e quando nei centri maggiori le bandisce il fascio, la gente dei paesi le ignora. Ma gli assaggi del vino nuovo, i consigli, le lodi e il biasimo, a carico degli osti soprattutto, si susseguono fino a Natale. Ottobre, dunque, nonostante i primi freddi e le prime nebbie, è un mese festaiolo e loquace, che spinge a ritrovarsi, a comunicare a dispetto della mancanza di lavoro, dal momento che il raccolto della carice è finito ed è lontano quello delle canne.

Col novembre si approssimano i mesi invernali: il mese a Rivalta è quasi sempre freddo e nebbioso.

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Poi giunge dicembre: e qui, nonostante il buio anticipato e le nebbie, ritorna negli animi un po’ di luce e di gioia: è il mese delle “feste”: non si usano aggettivi, si sa che sono tutte quelle che porta con sé il Natale, prima e dopo il 25 dicembre. Per i bambini cominciano per tempo, il 13 dicembre, con l’arrivo di Santa Lucia. In quest’ unico giorno si concentra tutto quanto riguarda i piccoli; poi, non appena i genitori scoprono che i ragazzini di casa sanno chi è la “Santa Lucia dei doni” i magri regali vengono meno; e della Santa benefica in casa non si parla più che per sorridere o ironizzare. Non esistono negozi di giocattoli nei piccoli paesi della provincia. A Rivalta un negozio di scampoli e mercerie e un giovane falegname ingegnoso si attrezzano per l’occasione dai primi di dicembre: la Betta di piazzetta Arrivabene e Fausto Lucidino, con bottega in fondo a via Roma. Più che acquistare da vendere, Fausto si improvvisa fabbricante di giocattoli di legno: la madre li vende in una stanzona a pianterreno, che serve anche da cucina e comunica col laboratorio del figlio; a Mantova per acquistare giocattoli nessun rivaltese comune si sarebbe mai sognato di andare! I due negozi temporanei funzionano fino al dopo cena del 13 dicembre, quando i ritardatari portano i loro spiccioli, messi insieme all’ultimo momento. In aggiunta ai giocattoli sorgono come per incanto il 13 mattina lungo la via Roma un paio di banchetti con i soliti poveri dolci della sagra; nello stesso tempo il fruttivendolo espone frutta secca e arance: e il gioco è fatto. Chi è fortunato – Gepe lo è – può ricevere, per esempio, un camioncino di legno, un organetto a due note, che sta nel palmo della mano, un po’ di mandorle, una decina di arance (il frutto tipico di Santa Lucia). Per male che vada alcune arance le ricevono tutti. Il 14 i giocattoli spariscono dai negozi d’occasione ed i ragazzini non hanno più modo di alimentare fantasie morbose fino all’anno seguente: non si può desiderare ciò di cui si ignora l’esistenza.

Dal venti in poi si pensa alla preparazione del Natale; non ci sono “alberi” illuminati in giro (ancora non si usa) e i presepi sono rari e molto poveri. In chiesa il presepio consiste nel Bambinello posto in un cesto di paglia accanto all’altare.