Cap.2°    1928 e dintorni

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RICORDI DI SCUOLA

Gepe ha molti e chiari ricordi della terza classe, come se la scuola fosse cominciata soltanto allora.

Siede nel primo banco accanto alla finestra al primo piano; l’aula è ampia, ha tre finestre, due porte ed è piena di bambini. V’è una maestra giovane, che abita a Rodigo capoluogo e viene al paese in bicicletta ogni giorno. Si chiama Rita Trotti. La mamma va, quando non è occupata con le arelle, ad aiutare le due sorelle più giovani, non sposate, Anna e Maria, nel loro lavoro di magliaie; ed esse regalano a Gepe qualche maglioncino dai colori vivaci. Tra i suoi compagni modestamente vestiti sembrano un lusso incredibile.

La maestra Trotti parla molto e ride volentieri, dev’essere di buon carattere. Fa lavorare i suoi scolari, ma non li assilla. Ama sedersi sul tavolo del primo banco, il posto di Gepe, appoggiando i piedi sul sedile: da qui spesso legge o parla ai bambini. Quando lui la vede alzarsi dalla sua sedia, si accosta a Oreste, il compagno di banco, mentre lei si dirige verso i due in attesa. “Ah, mi inviti a casa tua!” dice lei a Gepe mentre si avvicina.

Tra i ragazzi si parla anche degli altri insegnanti; i due più chiacchierati a scuola (e a casa) sono il “cattivo” maestro Scandolara e la signorina Aspasia Poppi, zitella matura e giuliva. Abitano entrambi a Rivalta e sono, sotto l’aspetto scolastico, tipi opposti. Il primo è puntuale e scrupoloso nel suo lavoro, molto lodato dai genitori perché fa lavorare e usa “domare” i ragazzi indisciplinati con le maniere forti. In realtà è forse troppo rigido per fare l’insegnante. Ma tra lui e molti genitori deve esserci una comunanza ideale, quella di “educare” i ragazzi usando sovente le maniere forti.

Nella classe terza viene all’inizio dell’anno solo per pochi giorni, per fortuna. Un giorno fa scrivere una pagina di numeri, quindi comincia a girare tra i banchi con una robusta canna tra le mani. Subito ci va di mezzo la Flora, una ragazzina magra e bruna:  il quaderno vola in alto e lei, tirata a forza in piedi, fa un ampio girotondo trattenuta per un orecchio dal maestro urlante. (Gepe si ricorda della Flora di molti anni dopo, una bella sposa giovane fra i suoi bambini). Dopo l’esplosione, Scandolara continua il suo giro e, poco prima che arrivi a Gepe lui si accorge di aver scritto una mezza pagina di 3, aperti verso destra anziché verso sinistra. Trema per la tempesta imminente, ma il maestro non vede: pone il suo visto e il controllo prosegue altrove.

La signorina Aspasia, rivaltese di adozione, è beatamente rotonda, la sua figura si circoscrive in un triangolo con la base in alto all’altezza delle spalle: al di sopra è sistemato un viso ridente, sormontato da una pettinatura a campanile. Ha un petto monumentale. È il simbolo della calma, della pigrizia, del ritardo perenne: la scuola comincia alle 8,30 e lei alle 8,40 spunta piano piano in via Scuola dalla via Francesca, “tri pass in s’an quadrel” – tre passi su un quadrello –aiutandosi col lungo ombrellino chiuso, usato come bastone. In dieci minuti arriva nel cortile della scuola (dove sono in rumorosa attesa i suoi scolari), dopo essersi fermata qua e là, graziosamente a scambiare un saluto, una gentilezza. Dopo altri dieci minuti è in classe; e qui in mezz’ora si sistema a dovere davanti al suo tavolo. Il chiasso dei ragazzi non le dà alcun fastidio.

Nessuno l’ha mai spuntata con lei; e alla fine è stata accettata come una calamità naturale, caduta per caso sulla scuola di Rivalta. Andata in pensione, continua a vivere dove abita da sempre, una grande stanza piena di divani e di gatti: solo dopo morta trasloca, a cura di qualche parente, nel cimitero di una provincia vicina.

LA RICREAZIONE

Buona parte della vita di scuola si svolge nel cortile antistante: la ricreazione si protrae oltre il tempo consentito e non si tiene contemporaneamente per le cinque classi. Il direttore didattico risiede ad Asola ( a venticinque chilometri di distanza) e si fa vedere di rado; in paese non vi sono persone che possano o vogliano interessarsi della scuola.

Il cortile è ampio, i ragazzi sono più o meno duecento – una trentina e più per classe – e quando si scatenano sembra di essere in una bolgia di matti. Il cortile di cui sopra non può essere prato, dato il calpestìo; ma, cosparso con dei ciuffi d’erba secca, buche e polvere, non è neppure un vero cortile. Vi sono qua e là vecchie piante di robinia dal tronco nodoso e dalla chioma rada: poveri resti di un’alberatura regolare che negli anni ha ceduto alla presenza dei ragazzi e al trascorrere del tempo. Verso strada è delimitato da una bassa rete metallica, qua e là sfondata, e da un cancello di ferro che non si è mai potuto chiudere normalmente. V’è la proibizione di uscire sulla strada, ma il controllo è inesistente e molti ragazzi se ne vanno di corsa dal fornaio di piazzetta Arrivabene per il pane della merenda: duecento passi di andata e ritorno, compresa un’occhiata al Mincio che scorre pigro in fondo alla discesa.

Il gioco nella zona destinata ai maschi è senza freno e le incursioni tra le femmine sono continue; gli “scherzi” riservati ai più ingenui sono rozzi e impietosi: ci si può trovare ad un tratto con la faccia nella polvere o la bocca piena di erba secca. Anche a Gepe è capitato, segno che è tra gli “ingenui”.

In genere si tratta di giochi di gruppo, alcuni dei quali si impongono da sempre: il “saltamoleta” per esempio, con due o anche tre portatori – il primo tra loro appoggiato con le spalle al tronco – e sette o otto saltatori; che si lanciano di corsa in groppa ai primi, previo richiamo e risposta: “salta la mula ” – “ lascia che venga”. Dura fino a quando i portatori crollano sotto il peso dei soprastanti e tutti i giocatori finiscono in un groviglio urlante. Varianti tranquille sono il gioco dei cantoni, a nascondino, a battimuro, a palline. Sono vietati la palla e la lippa per via dei vetri delle finestre delle aule.

La ricreazione in cortile serve anche ad organizzare i giochi del pomeriggio sul prato della chiesa, nelle fosse del prete, al Mincio; oppure in qualche campetto di periferia del quale i ragazzi si appropriano fino a quando qualche adulto infastidito allontana con decisione la compagnia. Non ci sono spazi destinati ai ragazzi; di loro si curano solo, e non sempre, i genitori. Un po’ più avanti se ne curerà, anche a Rivalta, il “fascio”; ma solo per limitare la loro libertà.

 

“A PE PAR TERA”

Nella buona stagione quasi tutti gli scolari giungono scalzi nel cortile, con i sandaletti a tracolla; d’inverno con gli zoccoli appesantiti dall’acqua e dal fango. Molti arrivano anche un’ora prima dell’inizio delle lezioni: in campagna la gente è mattiniera e molti bambini aiutano gli adulti nella stalla prima di avviarsi verso il paese. Il bidello non li vorrebbe davanti alla scuola, lui che vi abita; ma non c’è recinzione, strada e cortile sono tutt’uno. E quei ragazzetti hanno voce e gambe instancabili. Se i vestiti sono fradici di pioggia, c’è un motivo in più per muoversi, ci si riscalda ed asciuga per quanto possibile all’aria libera.

L’abitudine ai piedi scalzi è diffusa ovunque: “andare coi piedi per terra” si dice in paese. I ragazzi si divertono, gli adulti vi trovano un modo di fare economia.

Con i piedi “per terra” si prova il piacere di un diverso contatto col suolo. A Gepe piace quell’abitudine, ma in casa sua è consentita di rado. Essa, d’altra parte, richiede allenamento e pelle dura, idonea per erba, polvere e ghiaia; e neppure troppo sensibile a cocci e spine. All’aperto in quel tempo a Rivalta non si conoscono pavimenti e asfalto.

Gepe possiede un solo paio di scarpe (molti non ne hanno mai avute) ed è suo padre che, di sera, provvede ogni tanto a risuolarle col cuoio comprato in città: col “piede” di ghisa sulle ginocchia, chiodini martello e coltello, si improvvisa calzolaio.

 

PERSONAGGI CARATTERISTICI

Presso la carraia che esce verso la stazione, s’apre un lungo basso portichetto, che serve da bottega a due anziani bottai, Fifèla  e Tuìcia.

Tuìcia e Fifèla sono due vecchi bottai a tutti noti, il primo magro e grinzoso, l’altro tondo e molliccio. Tuìcia ha fama di essere il regolatore degli affari comuni, l’altro l’uomo di fatica, lento e onnipresente.

I due lavorano spesso in cortile, accanto al focherello sul quale curvano le doghe di castagno; Tuìcia è lo specialista che cinge le doghe coi cerchi di metallo, tagliati e chiodati su misura; è il tecnico e si assume il compito di fare pubblicità alla ditta, se il cliente di turno non ha troppa fretta. Così un giorno: “Noi abbiamo una macchina che stringìsce e slarghisce tutti i sciersci” spiega compiaciuto. Tuìcia è senza denti e parlando struscia, fischietta e sbava; Fifèla tace, sorride riservato sotto i baffi incolti ricadenti ai lati della bocca, color tabacco.I due vecchi sono buoni coi ragazzi e loro ne approfittano: sottraggono la raspa a Tuìcia per sentirlo sproloquiare contro Fifèla, che “perde la roba perchè ha la testa nel pallone”.

  1. LUCIA

Nella prima S. Lucia nella casa nuova Nibale fornisce involontariamente al figlio la prova che la Santa dei giocattoli è una balla che diverte i grandi a uso e consumo dei piccoli.

“Santa Lucia è tua madre, svegliati allocco!” li avevano avvertiti a scuola i più grandi. E la sera del 12 dicembre in casa lo fanno andare a letto prestissimo: “…perché S. Lucia qui… S. Lucia là…”

Solo nella sua stanza fredda, il sonno non arriva e la voce dei compagni più avveduti lo accompagna nel dormiveglia. Sobbalza al tonfo della porta esterna, che qualcuno richiude; e subito dopo, lontana, la voce di suo padre e le note di una fisarmonica… quella che lui aveva chiesto alla Santa dei giocattoli.

Al mattino Gepe, per pura compiacenza, si finge sorpreso davanti al giocattolo ricevuto; che in verità è troppo piccolo, due note soltanto, una delusione. È anche sormontata da due figurette che, quando il mantice si schiaccia, si avvicinano: l’omino e la donnina si baciano sulla bocca; come Cesare e la zia Anna.

Ma la delusione è passeggera. Parlando con i compagni Gepe scopre che i più sono stati del tutto dimenticati da S. Lucia. Cecco, il nipote della Betta, giocattolaia locale, spiega a chi lo vuol sentire che sua zia “quest’anno in città ha comprato pochissima roba: c’è il rischio che la gente non compri, perché non ha soldi. E lei dei giocattoli che cosa se ne fa? Ci gioca lei?”

 

LA CASA “NUOVA”

A casa i servizi igienici si riconducono al mastello del bucato per il bagno e in un metro quadrato di orto chiuso da un graticcio di canne. Solo alcuni anni più tardi Nibale riunisce in una piccola costruzione di muratura e canne, posta dietro casa, il porcile, il pollaio, un portico e un gabinetto. Nel ’28 era arrivato alla fine della costruzione con alcune migliaia di lire di debito, una cifra impossibile per uno che guadagna a malapena duemila lire all’anno e ci deve vivere. Spesso giungono in casa, non inaspettati, il falegname o l’elettricista, poveri artigiani che tirano avanti coi denti e sono costretti a sollecitare un acconto, che spesso non può arrivare.

“ Se una cosa ti va bene, due ti vanno male; così sei sicuro di dover tribolare sempre”: questa è la massima pratica che si sente ripetere. E non risulta mai infondata: Nibale perde il suo lavoro fisso in città. Da allora deve accontentarsi di lavori saltuari con i due fratelli muratori, che a loro volta faticano a sopravvivere.

Quando erano andati ad abitare nella nuova casa, ancora non si era fatto nulla per l’approvvigionamento dell’acqua: padre, madre e lo stesso Gepe si recano col secchio ad una pompa a mano distante un centinaio di metri. Non appena di fianco a loro viene ad abitare Anselmo, fratello di Nibale, i due uomini, armati di piccone, badile, corda e secchio da muratore, si pongono a scavare un’ampia buca a cavallo del confine tra i due cortili: si tratta di uno scavo che in partenza occupa buona parte dei cortili stessi perché deve essere profondo oltre dieci metri (questa profondità all’incirca è la falda acquifera a Rivalta) e il sottosuolo è composto di sabbia e ghiaia, materiali franosi. Giunti alla falda approfondiscono lo scavo immettendo nella sabbia dei grossi tubi di cemento e scavandovi all’interno; quindi, interrando un tubo sull’altro tornano piano piano a livello del cortile. È così approntato, con un lavoro durissimo, un unico pozzo, posto sul confine e destinato a fornire acqua a due famiglie. Per molti anni quel pozzo darà un’acqua sana e freschissima; servirà inoltre da frigorifero: basta riporre i cibi da conservare e rinfrescare in un cesto e calare quest’ultimo a livello dell’acqua.

Tuttavia, quando si tratta di annaffiare la verdura dell’orto e far scorrere la catena col secchio pieno sulla carrucola per decine di volte senza interruzione, quell’acqua diventa davvero preziosa per la fatica che costa.

 

SESTO S. GIOVANNI

Si era nell’estate del ’29 e un giorno Nibale riceve una lettera da un amico di Sesto S. Giovanni, al quale si è rivolto, stanco di attendere un lavoro che non giunge mai: forse c’è la possibilità di andare a fare il muratore in lavori di manutenzione nelle Ferriere Lombarde. Parte il giorno seguente per accertarsi e ritorna dopo tre giorni con una notizia folgorante: è già stato assunto, ha trovato una casa a Sesto, devono partire tutti entro un paio di settimane. Nel poco tempo a disposizione la famiglia svende parte del mobilio (già scarso) e procede ad affittare la casa alla impiegata del locale ufficio postale: la casa nuova, tanto desiderata e sognata, tanto duramente conquistata e neppure pagata del tutto, si deve abbandonare dopo un anno o poco più.

Gepe può annunciare la sua prossima avventura solo a pochi amici; quelli che incontra sulle rive del Mincio, dove ogni giorno si va in buona compagnia a godere le vacanze scolastiche. Poi, via, dietro ai pochi mobili già spediti: a piedi a Castellucchio, dove si trova la stazione ferroviaria più vicina; poi un paio di cambi di treno, forse a Cremona e Codogno, e in sei-sette ore la vaporiera nera e sbuffante porta la famiglia sotto la gigantesca tettoia di ferro e vetro della stazione di Milano: è il primo viaggio in treno di Gepe!

Non ricorda nulla di altri spostamenti dopo il treno; si rivede nella sua memoria in un’unica stanza a piano terra di una casa nuova, ultima costruzione verso la campagna della via Torino di Sesto: gabinetto a secco, in comune, in cortile. Nonostante la scomodità della casa iniziano per il bambino rivaltese i tre anni certamente più belli della sua infanzia: un periodo della vita movimentato e interessante, vissuto tra Sesto e Rivalta, nove mesi a scuola e tre mesi di vacanze al paese, in casa dei nonni materni; lui che non si è mai mosso da Rivalta da quando è nato. Suo padre entra alle Ferriere Lombarde e da subito sembra contento del suo lavoro, che confronta continuamente con quello del paese: otto ore al giorno, un lavoro impegnativo ma non assillante, pagato regolarmente senza intoppi. In quell’ambiente deve fare il suo dovere, ma non è tenuto a riverire i padroni, come al paese.

Anche Rosina vuole un lavoro; e lo trova a servizio presso una famiglia di impiegati che abita in uno stabile di viale Marelli: il viale comincia allo stabilimento Magneti Marelli e termina alla linea ferroviaria Milano-Monza, presso il rondò di Sesto. Spesso va al mattino, subito dopo che Gepe è partito per la scuola, e torna verso le quattro del pomeriggio. Quando il bambino torna a metà giornata dalla scuola trova la chiave di casa dal portinaio, entra e si arrangia a consumare il pranzo che sua madre gli ha lasciato al mattino: c’è un fornello a petrolio che non sempre funziona; oppure la stufa nella stagione fredda. E trascorre da solo buona parte del pomeriggio.

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LA PASSIONE PER LA LETTURA

Pochi giorni dopo l’arrivo, i genitori lo accompagnano un po’ in giro perché impari a conoscere Sesto, già allora un grosso centro industriale. Si comincia dalla scuola che dovrà frequentare e si termina alla cattedrale, S. Andrea: l’una e l’altra sono in centro, piuttosto distanti da casa loro.

Lungo la via che porta in centro Gepe vede subito la sede della biblioteca parrocchiale e vuole entrare. Gli spiegano che può prendere a prestito libri spendendo pochissimo; e si fa subito regalare la tessera d’iscrizione. Al paese ha letto ben poco, qui si scopre in poche settimane una grande passione per la lettura, un piacere che non cesserà mai più e lo aiuterà moltissimo nella scuola e nella vita.

Il ragazzo di campagna, che non può avere alcun aiuto dalla famiglia, salvo i pochi soldi necessari per i libri di scuola, ha la fortuna di imparare ad aiutarsi da solo: Salgari, Verne, Motta ed altri autori “impegnati” riempiono ben presto la sua giornata assai più dei compiti della scuola e dello studio quotidiano in quei tre anni. Rosina (glielo ha ricordato tante volte) quando, verso le quattro o le cinque del pomeriggio, apre la porta dell’unica stanza, trova il bambino con le ginocchia e i gomiti sulla tavola e un libro sotto gli occhi: la posizione è scomoda e dannosa alla salute, ma lui non lo sa o non ne tiene conto.

 

LA NUOVA SCUOLA

Ai primi di ottobre entra nella sua nuova classe, la quarta B maschile della signora maestra Maria Ferè. Gepe non dimenticherà più il viso buono e ridente di lei; e per un paio d’anni vorrà più bene a lei che a sua madre: la signora è sempre disponibile e sorridente, sua madre spesso è immusonita e brusca. È accompagnato a scuola il primo giorno soltanto, perché i genitori non possono sottrarre tempo al loro lavoro.

Non gli pare di essersi trovato male tra i nuovi compagni, anche se qualcuno lo ha gratificato di epiteti nuovi per lui: “co’rüggin” e “crapa de tola” i più frequenti. Vi sono senza dubbio anche dei ragazzi gentili, dal momento che, dopo pochi giorni Gepe si trova in visita presso qualche compagno, che abita in case più grandi delle sua, due stanze, tre addirittura.

Qualche tempo dopo in casa si racconta che a Rivalta si va dicendo che Gepe a Sesto è stato retrocesso in seconda classe: non c’è molta fiducia in paese nella validità della scuola locale.

È probabile che all’inizio dell’anno il nuovo scolaro non sia tra i migliori; ma poi si inserisce senza problemi, anche per merito della signora Ferè, molto sollecita con gli alunni in difficoltà.

La nuova scuola è sistemata in un vecchio fabbricato affacciato su una piazzetta un po’ squallida; ha un cortile interno non molto ampio e in parte alberato, due cancelli di ferro che ne chiudono l’accesso dalla strada. Dalla casa di via Torino Gepe percorre da prima uno stradello di campagna fangoso o polveroso secondo la stagione; poi entra in una via di periferia, passa davanti al vecchio cinema Italia e continua verso il centro per circa un chilometro. Solo nell’ultimo tratto, davanti ad una piccola cartoleria, si accompagna a qualcuno; ogni tanto entra anche lui nel negozietto: il piccolo spazio davanti al banco a quell’ora è gremito di ragazzi che si forniscono di generi voluttuari; legno dolce, carrube e liquirizia. La merenda ciascuno la porta da casa nella cartella: i più fortunati hanno un panino con l’uva e devono passarne un boccone a qualche amico. Gepe di solito cammina solo e in fretta badando alle biciclette degli operai che si incrociano rapide lungo le vie, soprattutto al ritorno; magari ripensando al libro che sta leggendo e che tra poco potrà riprendere in mano.

 

L’ORATORIO

Fin dalla prima domenica del soggiorno a Sesto, Rosina porta il figlio alla chiesa parrocchiale di S. Andrea. Viene indirizzata ad un giovane incaricato di una organizzazione cattolica giovanile; si chiama Varisco ed ella a lui affida il figlio. Da allora Gepe andrà tutte le domeniche, e ogni tanto anche nei giorni feriali, a S. Andrea. V’è di fianco alla chiesa un grande cortile polveroso, dove i ragazzi giocano interminabili partite di calcio. Lui non partecipa mai, non gli piace; rimane ai margini del campo o in qualche stanza adiacente, occupato in giochi tranquilli in attesa che inizi la proiezione del film. Si affeziona al signor Varisco, che si affida ad un certo gruppo quando si deve dimostrare ciò che i ragazzi imparano all’oratorio. Così una domenica quel ragazzino timido e introverso si trova in Sant’Andrea, in prima fila, mentre si attende l’arrivo del Cardinale Shuster, arcivescovo di Milano. Il prelato entra e si ferma qua e là per rivolgere domande ai ragazzi: dicono che così è solito fare. Giunge all’altezza di Gepe, gli si avvicina e chiede, continuando un discorso precedente: “ E tu andrai all’inferno o in paradiso?”. “All’inferno” risponde il bambino confuso, che tutto si aspettava, meno che di essere interrogato da un personaggio tanto importante. La gaffe fa ridere di cuore il cardinale, che gli accarezza il capo appoggiandolo alla sua veste rossa. In questo modo l’errore di Gepe si trasforma in un successo.

 

LA MAESTRA FERÈ

A scuola la maestra Ferè parla molto e fa parlare. In classe per quei tempi non sono in molti, una trentina, seduti in vecchi banchi. La signora predilige “Cuore”, che legge e fa leggere a turno. Spesso si commuove e comunica ai ragazzi le sue emozioni. Personalmente Gepe considera le imprese de “La tigre della Malesia” infinitamente più avvincenti .

La signora Ferè alcuni anni prima ha perduto un figlio di una decina d’anni di età; quella perdita l’ha segnata profondamente e avvicinata affettivamente ai ragazzi, che incontra ogni giorno in classe. Vive a Milano e dalla grande città porta giornali per ragazzi e qualche libro moderno. Così ogni tanto in biblioteca entrano libri nuovi, importanti, che l’insegnante distribuisce in lettura con precedenze stabilite dal merito scolastico; per esempio, Gepe deve attendere solo qualche settimana per avere “Il piccolo alpino” di S. Gotta. Dopo alcuni  mesi il ragazzino comincia a distinguersi nei compiti d’italiano: quando un ragazzo della sua classe scrive un buon tema, la signora Ferè lo manda in una classe vicina perché quel tema sia letto ad alunni diversi. Quell’onore a lui tocca spesso; ed è per questo che ricorda un maestro alto e magro, dal viso triste, che lavora nella classe accanto. Di qualcuno di quei temi si vergognerà alcuni anni dopo, quando lo ritroverà  tra i suoi vecchi documenti. Constaterà che quel ragazzino della scuola elementare rivela una fantasia scombinata, che lo porta qualche volta a sconfinare nell’incongruo. Una volta, per esempio –  si è in un giorno piovoso di novembre – paragona la tristezza dei pioppi spogli del cortile con “quella del popolo italiano dopo la sconfitta di Caporetto”.

Pur dimostrando di avere idee e di saper usare l’italiano in modo corretto, egli non è tra gli alunni  migliori in assoluto per via delle difficoltà che incontra in aritmetica, dove gli capita ogni tanto di sbagliare inspiegabilmente qualche problema. Comunque la signora Ferè incoraggia la madre di Gepe a far continuare lo studio al figlio dopo la quinta elementare, ogni volta che l’incontra a scuola. Per l’esame di ammissione darà lei qualche consiglio e troverà il modo di fornire un aiuto. Rosina è orgogliosa delle lodi della maestra e si riconferma nella decisione presa da alcuni anni.

 

DIFFICOLTÀ  QUOTIDIANE

Il primo inverno trascorso a Sesto è piuttosto rigido, il più freddo degli ultimi anni, dicono in casa.

Nell’unica stanza di via Torino, nella quale funziona per molte ore una stufa di ghisa a carbone, alla sera c’è fin troppo caldo. Ma Rosina si angustia per la mancanza di spazio. Se si considera che in quella stanza sono sistemati i letti per tre persone, un piccolo armadio, un comò, un tavolo con tre sedie, un piccolo buffet, oltre a secchiaio e stufa, non si capisce proprio come ci si potesse vivere. Tuttavia di quello spazio la famiglia deve accontentarsi per i tre anni di Sesto. E nessuno immaginava allora che allo stesso modo e per lo stesso tempo avrebbe dovuto vivere dopo il forzato ritorno a Rivalta.

L’unico, importante, motivo di conforto per i due genitori è la frequente spedizione al paese di un vaglia postale, a decurtazione del debito sulla casa: è proprio per mettere insieme i soldi di quei vaglia che essi non vogliono prendere in affitto due stanze, come avrebbero potuto.

 

UN’AMICIZIA SILENZIOSA

Nel tardo autunno, prima delle otto del mattino, Gepe esce di casa col suo cappottino corto, ben avvolto in una sciarpa che giunge fino alla berretta, calze e guanti di lana: il tutto è un dono prezioso di zia Anna, venuta in ottobre a vedere i parenti milanesi. Il fondo sconnesso dello stradello, prolungamento della via Torino, è gelato e bianco di brina; per scaldarsi il ragazzo lo percorre di corsa.

Una volta, all’uscita sulla strada, dove si sta costruendo una casa nuova, vede un ragazzo poco più alto di lui intento a rimestare nella calce gelata con una lunga zappa: sembra poco coperto ed ha due calze nere lunghe, che salgono fino ai calzoncini corti. Gepe si ferma a guardare e quello lo saluta con un cenno della mano, fermandosi a sua volta. Ma una voce aspra e minacciosa giunge dall’interno della costruzione ed entrambi i ragazzi si scuotono, sorpresi e spaventati. Da quel giorno e fino a quando il cantiere chiuderà per il freddo intenso, i due si salutano in silenzio, con un cenno della mano. Gepe s’è convinto che ha ragione mamma Rosa quando gli dice che lui è un ragazzo fortunato, dal momento che non sono pochi quelli avviati al lavoro verso i dieci anni: la povertà è una legge dura e inesorabile.

 

LA COLONIA ESTIVA

I mesi di scuola passano nell’attesa ansiosa del ritorno al paese, promesso da tempo. Ma un giorno giunge inattesa una notizia amara: un certo ufficio comunica che Gepe è stato accolto per un mese nella Colonia Fascista Modenese di Riccione: partenza il giorno successivo all’ultimo di scuola.

Per il ragazzo quello è il più brutto mese dell’anno: alzabandiera e ammaina bandiera, canti della patria, ginnastica di gruppo, gioco guidato, ricreazione tra la sabbia polverosa del cortile, e il mare davanti agli occhi, pieno di bagnanti, da godere solo per dieci minuti al giorno, anche nell’acqua in folla e comandati a fischietto. Gepe vorrebbe almeno potersi sfogare con i suoi, ma neppure questo è possibile: si scrive una volta alla settimana, su una cartolina postale, poche righe a matita. I ragazzi che vengono da altre esperienze consimili dicono che lì si mangia molto male. Si mangia bene solo una domenica, a pranzo, in occasione della visita di un gerarca: e si paga il vantaggio con molti canti ed esercizi aggiunti; e con la rinuncia al bagno giornaliero.

Il ritorno a Sesto è una liberazione; come avvicina sua madre, sul marciapiede della stazione, Gepe proclama che piuttosto di andare ancora in colonia, scappa da casa e non si fa più vedere. Di colonia estiva  in casa sua non si parlerà mai più.