Cap.6°  Il ritorno nella Valle

A giugno Gepe è promosso in seconda ginnasio e viene spedito, prima del solito, a Rivalta da nonno Enrico. L’amico Moroni ha consigliato di rimandare all’anno successivo il cambio di scuola; ora il ragazzo deve subito iscriversi alla seconda classe del Ginnasio-liceo Virgilio di Mantova .

Nei tre mesi estivi i genitori debbono preparare e realizzare il ritorno a Rivalta, trovare qui una casa qualsiasi innanzi tutto – e che costi poco, perché soldi non ce ne sono –. Le signorine Fattori,  le postine, alle quali la casa di Via Scuole è stata affittata, non intendono per il momento restituirla: la casa ora è pagata, ma non è utilizzabile. Si vedrà in seguito.

Animato dall’incoscienza dei suoi undici anni Gepe si appresta a godersi le sue vacanze, come negli ultimi due anni. In casa dei suoi ospiti viene trattato anche meglio del solito: le difficoltà dei genitori predispongono nonni e zie ad una comprensione particolare.

Un giorno gli dicono che in settembre andrà ad abitare in via Voltazzola, ancora in un’unica stanza; è un colpo duro per il ragazzo, neppure alleviato dall’assicurazione che la casa dei nonni resterà sempre aperta per lui.

EMMA

In quel periodo Gepe osserva con maggior interesse i vicini di casa dei nonni. Con Erminia si ferma spesso a parlare Emma, un’anziana vedova, amica dall’infanzia, che abita nello stesso casamento. Le due sono state compagne di scuola dalla prima alla terza elementare sotto la guida di una leggendaria maestra Letizia, verso il remoto 1870. La scuola era locata nelle stanze dove ora Emma vive: sull’arco della porta che dà sulla piazza si legge tuttora, in lettere sbiadite dal tempo, la scritta appostavi dal Comune, “Scuola elementare”. Abita con Emma il figlio Dante, trentenne che assomiglia straordinariamente alla madre. Con lui Gepe diventerà  grande amico – nonostante la differenza d’età – negli anni che seguiranno la fine della guerra e del fascismo mentre la democrazia compirà i primi difficili passi.

Nell’ampio isolato che delimita la piazza verso via Roma è sito un bar, accanto le abitazioni di alcune famiglie di operai: Celo, il postino che qui vive con i figli, l’Ernesta sua moglie e una nipote, Elena orfana di madre, coetanea di Lino e Gepe. V’è poi la famiglia di Vigilio e Filomena, i cui figli lavorano, quando è possibile, nella Valle del Mincio. Vigilio, il padre, cammina portando il capo rigido, piegato su una spalla: i famigliari di Gepe sussurrano spesso che in quella positura l’hanno ridotto alcuni anni prima le bastonate dei fascisti. Sul lato opposto della piazza, in una grande casa simile a quella del nonno abitano i Marchini, una numerosa famiglia di affittuari. Mantengono attiva nel cortile una stalla di bovini e davanti alla casa, in bella evidenza sul piazzale, un grande letamaio scoperto. Tutte  le case che circondano la piazza, canonica compresa, sono vecchie e trascurate; il gran mucchio di letame posto a un metro dal passaggio da e per la chiesa sembra non disturbare alcuno.

DON ARNALDO

Il personaggio di gran lunga più importante tra gli abitanti della piazza è don Arnaldo, l’anziano parroco di Rivalta, un uomo alto e robusto di circa sessant’anni. Esce raramente, solo quando deve raggiungere la vicina privativa di via Roma, dove si provvede dei sigari toscani, dei quali è gran fumatore. Passando davanti alla casa del nonno saluta cordialmente i presenti e scambia qualche parola, senza mai fermarsi; spesso lo si vede sulla porta della canonica, intento a fumare il suo sigaro, rivolto verso la piazza. Solo poche volte all’anno si fa portare in carrozza a Mantova perché – dicono – deve conferire col vescovo. Don Arnaldo è universalmente stimato e benvoluto, non certo per merito dei rapporti quotidiani esterni, rari e brevi, che intrattiene con i suoi parrocchiani, ma per l’ampio spirito di solidarietà, che manifesta verso i poveri, senza distinzione alcuna. La parrocchia di Rivalta ha fama di essere una delle più ricche del mantovano, gode del reddito di alcune decine di ettari di buona terra; perciò nel cortile dietro la canonica ogni anno si innalza un immenso mucchio di legna e in granaio un’ abbondante scorta di grano e granturco. Durante i mesi freddi, quando in campagna ogni lavoro cessa quasi del tutto, si osserva una specie di processione di poveretti senza lavoro che salgono verso la canonica, spingendo carretti a mano e carriole: chiedono aiuto a don Arnaldo e vanno a prelevare un po’ di legna, di grano, di polenta. La risposta a chi chiede è sempre la stessa: “Prendete solo quello che vi è necessario, lasciatene anche per gli altri”; gli altri sono quelli che arriveranno nei giorni seguenti, fino a primavera. Per chi non può muoversi da casa don Arnaldo scrive un biglietto al suo amico Enrico: venga in granaio a prendere venti chili di grano e porti la farina al tale, al talaltro.

Questo fa da sempre il parroco di Rivalta. Vino non ne tiene in casa, sia perché è assai parco, sia per non alimentare il vizio della sorella Maria – la Maria del prete – che con lui convive: buonissima donna, che non sa vincere il vizio del bere a dismisura e che cerca ogni mezzo per soddisfare la sua passione. Quando è brilla, Maria mostra un viso luminoso e ridente, ma rimane silenziosa: in qualche modo riesce a controllare l’euforia da alcool. Si dice che all’approvvigionamento dia una mano Luigi, il sagrestano uomo tuttavia morigerato e buono; o l’Angela, sua moglie. Per mano loro transitano nella piazza fiaschi e bottiglie, mal celate nella sporta della spesa.

L’affittuale più importante del parroco è Luigi, noto come il Veneto della Pussiun Granda, il fondo della prebenda più vicino a Rivalta. Luigi abita in una grande cascina al margine nord del paese; è carico di figli e può accadere che qualche volta non riesca a saldare il suo debito col padrone fiduciario della terra che lavora. In quel caso diventa uno dei beneficiari della generosità di don Arnaldo.

DA VIA VOLTAZZOLA A MANTOVA

Verso i primi di settembre di quel disgraziato 1932 arrivano da Milano i genitori di Gepe. Il ragazzo ha sperato fino all’ultimo che finalmente la famiglia sarebbe tornata ad abitare nella casa di via Scuole: è stanco di muoversi a fatica tra mobili ammucchiati, di non avere neppure un angolo suo in cui sedersi a leggere.

E invece non è così. Le signorine Fattori, le due vecchie zitelle piene di gatti, che hanno avuto in affitto la casa tre anni prima, si sono rivolte all’autorità per poter continuare a restare dove sono: svolgono un servizio pubblico e devono essere lasciate in pace. I padroni di casa si arrangino come possono. A Nibale Merican è consigliato in modo garbato ma deciso di non insistere. Alla famigliola non resta che andare ad abitare di nuovo in un’unica stanza, posta a metà di via Voltazzola, in una vecchia casa. Del resto, dice loro qualcuno, non avete lavoro e con l’affitto guadagnate qualcosa.

Restano pochi giorni a Gepe per organizzarsi e poter frequentare dai primi di ottobre la nuova scuola a Mantova. Ora non c’è più la tramvia a vapore che collega Rivalta alla città: si deve andare in bicicletta alle Grazie – tre chilometri di strada piena di ghiaia e di buche, fangosa o polverosa – . Da qui un tram elettrico porta a Mantova in mezz’ora; poi, dall’arrivo si va a piedi al Ginnasio.

Ma c’è un problema, Gepe non sa andare in bicicletta; e, del resto, una bicicletta non l’ha mai posseduta. Provvede lo zio Vincenzo, che, in cambio di un sacco di grano, ottiene una vecchia trappola da un amico contadino; la porta a casa sul carretto e la consegna al nipote perché diventi ciclista nel più breve tempo possibile. Si è alla fine di settembre e il ragazzo si mette all’opera, compiendo decine di giri del paese, perché qui le strade sono migliori. In uno dei primi tentativi incappa proprio nel carretto di nonno Domizio: se lo trova davanti all’improvviso svoltando da via Francesca in via Roma. Non è pronto a frenare – o il freno non funziona – e lui va a sbattere contro la parte posteriore del carretto. La bici finisce in un rovinìo e lui sul ghiaietto della strada. Mentre si risolleva, sfregandosi le ginocchia ammaccate, sente la voce pacata e amichevole del nonno: “Sei qui, caro? Come va?”. Si è avvicinato e gli parla sorridente: non si è accorto di nulla, crede che si sia fermato per scambiare due chiacchiere.

In uno dei primi giorni di ottobre Gepe si presenta nella nuova scuola: sveglia alle sei, partenza in bici alle sette, tram delle sette e trenta a Grazie, arrivo a Mantova alle otto davanti al teatro Sociale; camminata di un chilometro fino al Ginnasio in via Accademia dove alle otto e trenta cominciano le lezioni. Stessa storia al ritorno, per cui, se esce alle dodici e trenta arriva a casa alle quattordici.

Là, nell’unica stanza fitta di mobili, da solo, si deve riscaldare il pranzo su una stufa a legna, che trova spenta. Sua madre ha ricominciato a occuparsi delle arelle, rientra alle dodici, in mezz’ora prepara il pranzo per tutti e alle tredici ritorna al lavoro. Dalle quindici, o anche più tardi, Gepe può cominciare a lavorare per la scuola; ma deve finire il tutto entro un paio d’ore, perché poi tornano i genitori e non è più possibile per lui studiare in quell’unica stanza: quello è il suo tempo a disposizione nel periodo dei giorni più corti.

Nella stessa casa in più di una stanza abitano un sarto con la famiglia e due vecchie zitelle, la Concordia e l’Arpalice: il nome di quest’ultima è stato contratto in “Pace”, per cui è diventato proverbiale in paese il binomio “Pace e Concordia”.

In mancanza di meglio Rosina ha affidato il controllo del figlio all’Arpalice: ogni tanto lei viene ad occhieggiare alla finestra per accertarsi che il ragazzo sia in casa; se lo vede col piatto davanti, gli chiede che cosa sta mangiando, alla risposta aggiunge un breve commento e sparisce.

Il Ginnasio-Liceo Virgilio di Mantova è situato in un grande palazzo del 1700, che fa angolo tra le vie Accademia e Pomponazzo. Costruito al tempo di Maria Teresa, ha ospitato sempre qualche scuola; è dotato di corridoi amplissimi, aule vaste e alte, due entrate, una su ogni via. Dove la Via  Accademia si apre sulla piazzetta Dante Alighieri, c’è un grande portone dal quale si accede alla biblioteca comunale, sistemata nello stesso palazzo. Quando l’età glielo permetterà comincerà anche Gepe a frequentare assiduamente la biblioteca. Essa risulterà tanto ben fornita di volumi pubblicati prima del 1920, quanto scarsa di libri attuali.

Al ginnasio la classe seconda è ospitata in una grande aula con banchi a gradinata, tre allievi per banco. La classe è mista: così sono tutte le aule destinate ai piccoli. È posta al primo piano, all’inizio di un corridoio al quale si accede direttamente da via Pomponazzo. Proprio in quel corridoio, una decina di anni più tardi si compirà l’evento più importante della vita di Gepe.

Non appena, dopo qualche tempo, giunge l’orario definitivo, il ragazzo deve restare in città per un paio di pomeriggi a settimana, per qualche ora di lezione. Allora i genitori lo sistemano a pranzo presso una cugina di Annibale, l’Erminia. Costei è figlia di un fratello di nonno Domizio e vive col marito Gaetano (Gaetanìn) e due figlie di qualche anno più giovani di Gepe, in tre stanze a piano terra in via Trieste. Erminia forse è una brava donna di casa, certamente è molto disinvolta e chiacchierona; ed assume col ragazzo un atteggiamento scherzoso e svagato, che lui sente chiaramente canzonatorio. A giudizio della donna Gepe è il parente di campagna un poco tonto capitato a sproposito nella scuola di città. L’Erminia suole rivolgersi a lui ignorandone il nome ed usando dei soprannomi spiritosi. Tra questi, il più frequente è Tamarindo. A tavola l’ospite è spesso bersaglio dei suoi scherzi e le due figlie ragazzine sono il suo pubblico compiacente.

Erminia aiuta il marito, commesso in un negozio di mercerie, facendo la donna di servizio;  Gepe, timido e impacciato, costretto ad un completo cambiamento di abitudini, non si trova bene nella nuova compagnia; e l’anno seguente va da zia Paolina, sorella della mamma.

L’avvio nella nuova scuola non deve essere facile se nel primo trimestre gli danno un tre in matematica. A Monza l’insegnante quasi certamente è rimasto indietro col programma rispetto a Mantova; e Gepe ora ne paga le conseguenze. Per fortuna capita nel primo banco vicino ad un compagno buono e diligente, che lo aiuterà non poco in latino, la materia nella quale Gepe continua a trovarsi in difficoltà. Preside della scuola è Pizzini, un anziano professore di vecchio stampo, che ha fama di intransigente; ai piccoli incute un vero terrore ed essi cercano di evitarlo quando lo scorgono da lontano nei corridoi.

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RIVALTA E LE ARELLE

Rivalta è nota in quegli anni come la località più importante della provincia per la lavorazione industriale dei prodotti della valle del Mincio: Canne, carice, giunchi e tifa. V’è pure una notevole attività rivolta alla pesca, nel fiume sempre ricco d’acqua, che nella valle forma una miriade di fossi e canali; ma la pesca interessa solo una quindicina di famiglie, che abitano presso il fiume e si tramandano l’attività di padre in figlio. L’agricoltura è discretamente sviluppata, ma non come a Rodigo, dove la terra è più fertile: può dare sostentamento solo a un numero limitato di famiglie.

La grande maggioranza della popolazione dipende direttamente dalle risorse offerte dalla valle. D’inverno si tagliano le canne che, dove l’acqua abbonda, crescono fino a tre metri d’altezza e oltre. Il taglio è un lavoro faticosissimo, adatto solo a uomini giovani e validi, tanto più che si compie quasi sempre nel freddo e nella nebbia, spesso abbondante nel mantovano. Per il taglio si usa un falcetto pesante, con un manico lungo, che spesso nel movimento si appoggia al fianco. Le canne tagliate si stendono al suolo e si raccolgono e legano in mazzi. Terminata la fase del taglio, segue quella del trasporto a spalla fino alla barca. I tagliatori usano calzature alte oltre il ginocchio, di cuoio grezzo robusto, munite di spesse suole di legno: questo conserva il calore del piede, ma rende il passo disagevole, anche perché il suolo della valle, quando non è gelato diventa fangoso, cosparso di buche piene d’acqua. Dalla zona di taglio i mazzi sono trasportati a spalla e sistemati in ampie barche, chiamate impropriamente gondole (non assomigliano per nulla alle gondole veneziane); le gondole vengono spinte a forza di braccia, spesso contro corrente, fino al porto di Rivalta. Non è raro che, o per l’eccessivo carico o per una manovra sbagliata, la barca affondi: allora si deve essere abili per raggiungere la riva e salvare la pelle. Recuperare il carico sul momento è impossibile, dato il peso enorme delle canne piene d’acqua. Ci si accontenta di recuperare la gondola, asciugarsi alla bell’e meglio e raggiungere il paese con l’aiuto di qualche compagno.

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Le canne si scaricano al porto; si sistemano i mazzi su un rimorchio a fondo piatto e si va a scaricare al magazzino. I pesanti fasci nelle varie fasi della lavorazione devono essere maneggiati almeno quattro volte: il lavoro di trasporto diventa a volte più pesante di quello del taglio, già di per sé faticoso. Nei magazzini, ampie aree aperte poste in mezzo o al limite del paese, i mazzi di canne vengono appoggiati, leggermente inclinati, a incastellature di pali disposti a triangolo col vertice in alto, i cosiddetti “cavalli”. Si lavora a contratto, un tanto al mazzo: uno o cinquanta al padrone non importa, lui paga solo ciò che giunge al magazzino. Si tagliano canne fin verso marzo; si fa il disoccupato (senza alcuna indennità) fino al raccolto estivo del carice; il lavoro diventa sfibrante anche perché ogni lavoratore cerca di tagliare nel giorno la maggior quantità possibile al fine di premunirsi contro la disoccupazione che lo attende. Un lavoro più leggero (e meno retribuito) è quello della pulitura e cernita della canna; ma si compie all’aperto in pieno inverno e comporta la sofferenza del freddo: coperti di stracci, dato lo sciupìo provocato dallo sfregamento delle canne, pur restando liberi di muoversi, gli operai stanno a gelare per tutte le ore del giorno davanti al banco di pali infissi nel terreno; un focherello acceso di tanto in tanto è un ben misero conforto.

D’estate la valle offre altri prodotti: erba palustre, carice, giunchi e stiancia. Si dedicano alla raccolta e all’essicazione uomini e donne; aiutano anche vecchi e bambini: c’è lavoro per tutti e per tutto il giorno, domeniche comprese. La fatica comincia nella valle dalle tre alle quattro del mattino: chi prima arriva si pone a tagliare nella zona più redditizia. Verso le dieci, quando il sole comincia a scottare, e l’acqua della palude evapora, aumentando il disagio, si deve smettere di tagliare, perché la fatica diventa insopportabile; si raccolgono i mazzi d’erba già tagliata e si caricano sulla gondola. Verso le undici o le dodici si è in porto e si scarica. Nel pomeriggio, dopo un breve riposo, si torna al Mincio per caricare di nuovo, sui carri forniti dai padroni e si porta il carice in apposite aree, dove il prodotto viene pulito, disteso ed essiccato. In questa fase tutti i famigliari danno il loro contributo; si deve sgombrare il terreno dal carice già secco; se ne fanno mazzi da riporre sul posto, coprendo i mucchi perché non si bagni in caso di pioggia (l’acqua rende scuro e deprezza il prodotto già essicato). In seguito si provvede a sistemare e legare i mazzi per la consegna al padrone. Normalmente si termina il lavoro con le prime ombre della sera: cena e letto, per ricominciare poche ore dopo. E così per tutta l’estate.

La confezione delle arelle è compiuta dalle donne sotto porticati aperti col materiale che il padrone fornisce: canne tagliate nella misura dovuta, spago catramato, giunchi o filo zincato (sono essenzialmente tre i tipi di arelle).

Le donne addette devono ogni tanto andare a ritirare spago, giunchi o filo zincato al magazzino del proprietario (posto in centro paese) e portarsi il materiale sul luogo di lavoro, che può anche distare mezzo chilometro; in quella occasione si vedono per le vie del paese gruppi di donne vestite di stracci sporchi, usati durante il lavoro, le spalle cariche di quanto ricevuto. I giunchi o la stiancia devono essere immersi nell’acqua e mantenuti umidi perché siano flessibili: tutto questo lavoro preparatorio rientra negli obblighi supplementari dell’operaia e non viene pagato. Sul luogo di lavoro mazzi di canne e di arelle vengono spostati a spalle dalle stesse operaie, e anche questa è fatica non retribuita.

La confezione delle arelle viene compiuta, secondo il tipo, dalla donna seduta su uno sgabello (con l’arella appoggiata sulle gambe) o in piedi tra due cavalletti, sui quali viene appoggiato il manufatto in corso di lavorazione. È un lavoro che affatica, le mani in modo particolare, sia quando si ripuliscono le canne ad una ad una dalla pellicola dura che le ricopre, facendole girare e scorrere tra le dita, sia quando si fissano l’una all’altra facendovi scorrere in mezzo il filo di unione. Lo sfregamento continuo dello spago catramato o del filo zincato consuma la pelle delle dita e le unghie, causando spesso ferite dolorose.

Anche qui il lavoro è a contratto: tante arelle confezionate a dovere, tanti soldi.

014 La debbiatura.jpgA Rivalta sono quattro le ditte in attività: Benasi, la più importante, Grassi, Scalogna e Todeschi. Tutte le ditte sono d’accordo quando si tratta di fissare col sindacato unico le paghe degli operai. Interviene il sindacato, si discute inutilmente perché si sa già come andrà a finire, dal momento che sono vietati per legge lo sciopero e ogni manifestazione pubblica dei lavoratori: vince il più forte. Le altre ditte trovano la via già spianata e seguono a ruota. D’altra parte la disoccupazione è fortissima, si detesta il lavoro della valle, ma si deve accettarlo se si vuol sopravvivere.

Nel dopoguerra, quando via via per molti lavoratori si apriranno possibilità diverse, il lavoro della valle sarà gradualmente abbandonato. I mutamenti che interverranno in agricoltura e nelle costruzioni edili, con l’uso di materiali diversi da quelli naturali, porteranno al progressivo abbandono della valle del Mincio come fonte di lavoro.

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LA VALLE, UN PARADISO DI BELLEZZA

Da quanto s’è detto finora si potrebbe pensare alla valle come ad una specie d’inferno; invece, dal punto di vista naturalistico, essa è né più né meno di un paradiso, un mondo a parte, del tutto estraneo alla campagna circostante. Il corso del fiume da cinque-sei chilometri a monte di Rivalta e fino a Mantova – e oltre – è largo una ventina di metri, profondo e gonfio d’acqua, limpida anche in mezzo alle canne che bordano le rive: le quali sono ovunque, fino all’imboccatura delle fosse maggiori,  accompagnate da uno spesso muro di canne, uscenti dall’acqua, alte tre o quattro metri, nel quale si apre qua e là l’accesso alle fosse.

All’età di dodici–tredici anni un giro in barca nella valle con qualche amico esperto o qualcuno dei suoi cugini materni (i cinque figli maschi di zia Giustina sono operai vallivi e pescatori dilettanti) è una parentesi ricca di mistero e di suggestioni profonde che arricchiscono la vita quotidiana. Si va con una barca da pescatore, più stretta della gondola; meglio ancora, con un barchino, piccolo e leggero. Sul barchino bisogna muoversi con garbo, dati i forti improvvisi ondeggiamenti ai quali esso è soggetto: comunque, chi vuole andare spesso sul fiume e in valle deve essere esperto nel nuoto. Modestia a parte, Gepe lo è; sui quattordici anni aveva vinto, tra i compagni di vacanze estive sul Mincio, una strana gara di resistenza inventata in un momento di estro estemporaneo: l’attraversamento del fiume dalla riva rivaltese alla riva di fronte, con indosso una giubba militare di panno grigioverde. Chi avesse voglia di minimizzare quel successo vada d’estate sul Mincio a provare: è un’esperienza interessante, in pratica più utile delle gare di velocità e di stile, per chi sceglie di vivere sul fiume.

Per il giro in valle servono il remo e il puntale (un attrezzo dalla pala corta e rigida e il manico lungo): dove l’acqua è profonda e il corso abbastanza largo, serve il primo; sull’acqua bassa è indispensabile il secondo. Spesso il puntale serve anche per vincere la corrente del fiume. Ci si tiene vicini alla riva e si punta con forti e lunghe spinte sul fondo solido o fra le canne del bordo. Nell’andata si scende la corrente perché le fosse più belle e ampie si trovano a valle di Rivalta, sia sulla riva sinistra che sulla destra; il momento migliore per la visita giunge tra maggio e giugno: il taglio dell’erba palustre non è ancora iniziato, ma canne e carici sono già alte e folte e la vegetazione ancora intatta. Si scende il fiume per un certo tratto, quindi ci si dirige verso l’ampia apertura di una delle fosse maggiori, generalmente Canale del Re. Il fondo qui è distante quasi come sul Mincio; e qui, più che sul fiume si innalzano dal fondo e fino in superficie, lunghissime piante acquatiche, simili a ondeggianti sottili serpenti verdi. Per una decina di metri dall’imboccatura continua il muro impenetrabile di canne, poi quasi  all’improvviso le canne diradano e s’abbassano mentre la valle si apre ampia e piena di tesori. Ogni tanto ci si accosta alla riva e si sale tra il carice e le rade canne sottili, nelle cosiddette “prade”, zone di vegetazione varia, ricche soprattutto di carice, più o meno alta a seconda della conformazione del suolo e del livello dell’acqua. Ma non si deve camminare tra la carice, ormai pronta per il taglio: il calpestio rovinerebbe l’erba: bellissima a vedersi, con la cima piegata e ondeggiante alla minima brezza, essa in giugno cadrà sotto la falce dei tagliatori.

Dalla fossa maggiore ogni tanto si dipartono fossi minori, lungo i quali, se il livello del fiume è un po’ scarso, si fatica a far scivolare il barchino: il quale, d’altronde, leggero com’è in certi passaggi si può agevolmente sollevare e portare oltre l’ostacolo. I fossi più stretti spesso terminano in slarghi improvvisi, senza uscita. Qui la vegetazione palustre diventa più varia e più ricca, offre forme e colori bellissimi: l’amor nascosto – l’aquilegia – dai fiori violacei o bianchi, la salvinia, la felce dalle ampie foglie seghettate verde chiaro; l’equiseto palustre, con le sottili foglie raggiate intorno ai nodi del tronco; la rigogliosa calta dalle grandi foglie e dai fiori giallo-lucenti. Ancora, abbondantissimo il ranuncolo dalle foglie vellutate e quello dalle foglie succulente; la velenosa sardonia dai fiori gialli sulle infiorescenze terminali. Dove il suolo è più compatto le chiazze celesti del myosotis attraggono l’occhio del visitatore; e tra i myosotis le ricche foglie ovate della mestola e quelle tondeggianti delle primule…Sull’acqua immobile e profonda avanza l’orticolaria, galleggiante sulle aeree vescicole, ad ostentare i fiori gialli in grappoli… E ancora, lì accanto, la trapa prossima ad offrire i triboli (trigoli) puntuti dalla polpa insipida e dolciastra.

Ma per i triboli in agosto si va giù per il Mincio fino al lago Superiore, in vista della chiesa degli Angeli, dove la trapa la fa da padrona. Basta infilare le mani sotto le foglie galleggianti e buttare i triboli in barca: dopo mezz’ora la scorta basta anche per i parenti ed amici. Sulla via del ritorno, controcorrente, ogni tanto si fa una sosta presso la riva, un tuffo nell’acqua fresca e si risale in barca a ricuocersi al sole. A casa i triboli si buttano nel paiolo e, una volta cotti, si operano su ciascuno tre tagli precisi: la polpa soda esce da sola dal suo difficile guscio.

Nella valle anche gli animali abbondano, acquatici ed aerei: dalla rana, al rospo, alla raganella, alle biscie d’acqua repellenti e timide; a farfalle e libellule rosse e azzurre, ondeggianti sul carice, sui fiori, sull’acqua.

Gli accompagnatori al dilettevole uniscono sempre l’utile, perché canali e fossatelli sono ricchi di pesce. Meno che sul fiume la pesca è riservata ai pescatori di mestiere, che usano di solito il “bertovello” (bartavel cioè nassa) a posta fissa. Dove l’acqua non è profonda, nei punti strategici ben noti ai frequentatori abituali si vedono sul fondo o contro le rive in lieve discesa, i bertovelli fermati con ganci e cavicchi. Spesso, nello spazio chiuso dalla rete si intravede muoversi lenta la preda, il dorso scuro contro il fondo scuro; la sagoma rivela la specie: quella un po’ tozza della tinca, la sottile e slanciata del luccio, l’ondeggiante e sfuggente dell’anguilla…Vi sono infiniti angoli non utilizzati dai professionisti, in cui i dilettanti dissimulano le loro piccole reti coniche. È emozionante levare dall’acqua il bertovello con la sua preda: come la rete esce all’aria scoppia lo sciacquio frenetico dei pesci, in una miriade di gocce lucenti; ben presto le creature guizzanti, bellissime nel loro mondo, diventano una povera cosa sul fondo della barca…

In quegli anni il fiume è ricchissimo di pesce, di certe specie in particolare: tinche, carpe, anguille, lucci, pesce sole, persico e gatto. È tutto squisito, anche perché, non potendolo conservare, si prepara in giornata. Il luccio è il preferito di Gepe ed è insuperabile la sua polpa bianca e soda preparata dalla Maria Pezzini, della trattoria omonima: il luccio bollito intero con qualche erba; la polpa a grossi pezzi in un piatto fondo con olio d’oliva abbondante, poche gocce di limone e una pioggia di parmigiano. Quando gli capita in seguito di offrire la ricetta fuori Rivalta, Gepe incontrerà sempre incredulità e diffidenza; e invece il luccio bollito con olio e parmigiano è davvero una squisitezza.

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Il mondo alato della palude è il più ricco e stupefacente e meriterebbe un interminabile discorso: nella palude abitano, o vengono in visita tutti gli uccelli campagnoli, ed inoltre, vivono quelli diversi, propri dell’acqua e delle canne. Impossibile ricordarli tutti: c’è il cavaliere, dalle lunghe gambe e la testa piccola sul collo sottile, che cammina impettito nell’acqua bassa; la folaga dalle piume nere, povera perseguitata dalla carne squisita; il pendolino che vive in un fiaschetto di paglia e fango appeso ai flessibili rami di salice; il culbianco, la civetta, il cuculo, la sterna, la beccaccia, il germano… La simpatia di Gepe va da sempre alla gallinella: in maggio il suo nido appare all’improvviso, su un piccolo rialzo tra la carice rada. Sta ferma a covare anche se il barchino passa a una spanna. Se si ha la pazienza di attendere immobili che lei si abitui alla presenza dei visitatori, si può allungare la mano fino alle piume nerastre del dorso; il piccolo becco dalla punta gialla può anche rivolgersi verso la mano inopportuna, ma è una beccatina gentile. E ancora, dove la palude volge verso i prati, il picchio, il fringuello, il fanello, il cardellino, la tortora: e su tutto il mondo d’acqua e di verde, i fitti voli incrociati delle rondini, perché la palude è una riserva inesauribile di insetti, durante tutte le ore del giorno.