LA STORIA AD SALVAGN IN DLA LÜNA

Nelle corti del mantovano i rari filòs estivi si svolgevano sull’aia nella vigilia di San Giovanni (23 giugno) par ciapar la sguàsa (per prendere la rigiada) o durante la vigilia di San Lorenzo (9 agosto) per contare le stelle cadenti; oppure, nelle sere quando si procedeva alla spannocchiatura del granoturco. Il tutto veniva accompagnato da cori (chiassosi) o dalla narrazione di qualche racconto vivace e di dubbia credibilità.

Una di queste fòle che veniva raccontata alla Corte Cà Vecchia di Ronchi di Gonzaga, spigava ai presenti perché la lüna la gh ha la fàcia

Gh’era na vòlta an ta ch’as ciamava Salvàgn, un omone troculento e meschino abituato fin da ragazzo ad approfittare dei poveri e derubarli del poco che possedevano. La sua abitazione, una bieca e sbilenca stamberga al limitare delle sterpaglie che digradavano all’argine del Po, era stracolma di oggetti portati via dai paesi limitrofi e accumulati per il solo capriccio di possederli.

Salvàgn non si faceva mai vedere in giro di giorno perché passava tutto il tempo sul suo pagliericcio a dormire; poi, all’imbrunire, si alzava, si preparava un lauto pasto e, calata la notte, si apprestava… al lavoro che consisteva nel rubare galline, utensìli da cucina carriolate di legna, secchi, tridenti, fiasche di vino, e molto altro… l’ea tòlt al dé par la nòt e töt quél ch’as vdeva al la vrea (aveva preso la notte per il giorno e tutto quel che vedeva voleva).

Con la sua forza sapeva trasportare in breve tempo carichi di tronchi d’albero, bidoni del latte, cassette d’uva: la scaltrezza del Salvàgn e le sue diavolerie erano conosciute da tutti, ma nessuno era mai riuscito a trovarlo con li man in dal sach (le mani nel sacco).

Una notte decise di rubare due maiali che un contadino di una borgata vicina aveva acquistato il giorno prima a la Fera ad Gunşaga. Armato di due funi, un sacco e un tridente, Salvàgn aspettò paziente che si spegnessero gli ultimi lumi nelle case per poi uscire dalla sua catapecchia.

La luna piena rischiarava la campagna e Salvàgn in breve tempo avvirò alla staccionata dei maiali che stavano dormendo all’aperto.

Anca stavòlta agh la faghi” disse il malandrino già assaporando le preziose prede. Ma un dubbio atroce lo prese: la luminosità della luna piena sembrava lo scrutasse mettendo in evidenza a tutto il mondo le sue malefatte.

Restò un attimo a pensare; quindi, preso da tanta rabbia, ritornò al suo tugurio, prese na brasada (una bracciata) di pali e costruì una lunghissima scala che appoggiò alla ridosso… della luna!

Poi, impugnato un forcone, andò alla legnaia e tolse con impeto la fascina di sterpi più grossa che aveva… e salì… salì… fino ad arrivare alla luna.

Illuminato dai raggi lunari, Salvàgn era sempre in vista: da sotto qualcuno lo poteva vedere e poteva avvisare la giustizia; qualche latrato di cane, qualche imposta che si apriva aumentavano in lui il panico e la tremarella. Arrivato finalmente in cima, livido di rabbia perché la luna gli scopriva le sue malefatte, le scagliò contro con forza un’inforcata di spine con l’intento di oscurarla.

Ma in sal pö bèl, Salvàgn al gh’è cascà séntar… e al gh’èrmas par senpar! (ma sul più bello Salvàgn c’è caduto dentro… e ci è rimasto per sempre!).

Da allora la superficie della luna ha delle macchie che non sono altro che il faccione ghignante e adirato di Salvàgn, contornato dal suo “spinoso” fardello.


SALVÀGN IN DLA LÜNA. Caino nella luna.

Salvàgn è il none di un famigerato malandrino che i villici credono, o fingono credere, di vedere nelle macchie della luna; a spiegazione delle quali narrano che egli, sturbato nelle sue male opere dal chiarore di quell’astro, pensò addirittura di andarlo a coprire con una forcata di spine; ma nel più bello dell’opera venne inghiottito dallo stess.

A ciò fa allusione anche Dante in fine del canto XX dell’inferno, eccetto che invece di Salvàgn, egli nomina Caino.

(da il Vocabolario Mantovano-Italiano di Ferdinando Arrivabene ediz. Biblioteca Teresiana)

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