PUBLIO VIRGILIO MARONE

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UN GRANDE, MITE POETA

Il più grande poeta latino. Nacque il 15 ottobre del 70 a.C. ad Andes (divenuta Piètole), villaggio a pochi chilometri da Mantova. Egli trascorse una serena fanciullezza tra i campi e i pascoli del podere del padre, molto vicino alle boscose rive del Mincio.

Il padre, agiato agricoltore, lo avvia ben presto agli studi prima a Cremona in seguito a Milano e poi a Roma. Qui, alla scuola di illustri maestri di eloquenza, Virgilio stringe amicizia con giovani di nobilissima origine, tra i quali spicca per il precoce ingegno e la gentilezza nei modi Caio Ottavio, il futuro Ottaviano Augusto.

Nonostante le ambizioni del padre che vorrebbe fare di Virgilio un grande avvocato, il giovane si dedica completamente e con successo alla poesia. Di animo mite e amante della pace, canta in dieci poesie, chiamate Bucoliche la semplice vita dei pastori e menziona più volte non soltanto le loro ma anche le sue sventure, prima fra tutte la dolorosa perdita del podere di Andes, di proprietà del padre, in seguito alle confische e alla distribuzione ai veterani delle terre di Cremona e di Mantova (42 a.C.).

Dopo la vittoria di Ottaviano ad Anzio, nel 31 a.C., Virgilio già famoso per le Bucoliche e in particolare per i quattro libri delle Georgiche in cui viene esaltata la fatica del lavoro nei campi, si immerge nella composizione dell’Eneide, il poema di Enea, nel quale intende cantare le origini e la gloria di Roma.

L'ENEIDE DI VIRGILIO

È molto interessante ricordare il metodo di lavoro seguito dal poeta nello scrivere il suo capolavoro: all’inizio stende in prosa tutta la traccia del poema che divide in dodici libri o canti poi, compone questa o quella parte, senza seguire un particolare ordine, ma ubbidendo unicamente ai suggerimenti dell’ispirazione. Durante le ore del mattino, nel silenzio della villa di Napoli o di quella in Sicilia, donatagli dai potenti amici, Virgilio detta allo scrivano molti versi che poi, durante il giorno, rilegge. Il poeta dice che egli agisce con i suoi versi come l’orsa con i suoi piccoli, i quali nascono sgraziati, ma vengono poi rimodellati dalla madre che, leccandoli e rileccandoli, finisce col dare loro un aspetto piacevole.

Passano per Virgilio anni di vita appartata ed operosa e le poche volte in cui il poeta si reca a Roma, la gente se lo mostra a dito e lo festeggia, ma lui, intimidito e impacciato, cerca rifugio nella prima casa che gli capita, sottraendosi così all’ammirazione della folla.

IL TRONO DI VIRGILIO – MACA PALAZZO SAN SEBASTIANO – MANTOVA

Nelle ultime scoperte scientifiche dedicate all’opera poiché la lettura dell’iscrizione greca presente nella parte anteriore del Trono marmoreo – anche se danneggiata – consente di individuarne con certezza la collocazione originaria.

Il Trono era un sedile d’onore del teatro di una importante città portuale d’Asia Minore (Notion / Colofone sul Mare), dedicato a Dioniso e al popolo in età tardo-ellenistica. Lo mostrano bene i confronti con un trono iscritto quasi gemello dallo stesso teatro e ora al Museo di Smirne e con altri, sia da aree vicine che dal mondo greco.

La sua provenienza è particolarmente interessante per vari aspetti, compresa una curiosa coincidenza “mitistorica”, e in particolare per la circolazione in occidente di questo genere di sedili, spesso riutilizzati in età medievale come troni vescovili (e a Roma anche pontificali).

Impegnato nella revisione dell’Eneide, nel 19 a.C. si reca in Grecia per visitare i luoghi che ha descritto il poema. Si ammala, torna in Italia e nello stesso anno, il 22 settembre, muore a Brindisi.

Il suo ultimo desiderio fu quello che il suo corpo fosse sepolto nella prediletta Napoli e che l’Eneide, non ancora terminata, venisse bruciata. Augusto, però, ordina ai poeti Vario e Tucca di pubblicare il poema nelle stesse condizioni in cui l’ha lasciato il suo autore.

In questo modo l’Eneide, il poema della gloria di Roma, è potuta giungere fino ai giorni nostri.

In un poema epico come l’Eneide è singolare non trovare il desiderio di lotta e di gloria e l’esaltazione del valore guerriero; il “pio” Enea, che interpreta fedelmente l’anima di Virgilio, detesta la guerra ed ogni azione violenta o comunque crudele. L’eroe, è vero, combatte e uccide, ma lo fa con grave riluttanza, tra profonde incertezze, costretto dalla volontà del Fato, il quale vuole che egli porti a termine la sua missione. Per coloro che soffrono, siano essi amici o nemici, Enea prova una profonda umana simpatia e per tutti ha un sincero moto di pietà. Proprio questo umano e pensoso atteggiamento verso coloro che soffrono è la nota dominante che caratterizza il protagonista dell’Eneide e tutto il poema. In particolare Enea si dispiace dei patimenti e degli strazi dei giovani eroi che, combattendo con lui o contro di lui, cadono sul campo di battaglia. Piange, quindi, non soltanto la morte dei troiani Eurìalo, Niso e Pallante, figlio del re alleato Evandro, ma anche quella di un giovane del campo nemico, Lauso. Tutti questi giovani, riconosce Virgilio, sono mossi da nobili scopi e da generose passioni; il poeta si rammarica con profonda sincerità che per fondare Roma e il suo impero di pace e di giustizia siano necessari tante lacrime e tanto sangue. Una luce, però, illumina questa somma di sacrifici di cui i protagonisti, ad eccezione di Enea, non sanno darsi ragione: è la pace dei popoli, la civiltà diffusa tra le genti dell’impero di Roma.

(Pagina a cura di Grazia Baratti)